lunedì 28 agosto 2023

Il segreto del Golestan (racconto)

Quando si sveglia, i suoi occhi si mettono a fissare il buio. È tutto nero attorno a lui, solo una sottile linea gialla di luce passa da sotto una porta, ma lui non la può vedere dal letto dove sta sdraiato. Lui vede solo buio. Come al solito, ma lui non sa che è come al solito, la sua prima sensazione è di smarrimento, è disorientato, non solo non capisce dove è, ma lo stesso concetto di «dove» gli è estraneo. E quindi dopo il disorientamento arriva la paura, un sentimento forte, pressante, totalizzante che come una lenta scossa si propaga per tutto il suo corpo, dalla testa al petto, alle braccia, allo stomaco e giù giù fino ai piedi, e da lì di nuovo verso la testa, come la risacca di un’onda, fino a coprirlo tutto sotto una coperta gelida che lo schiaccia e lo fa respirare a fatica.

Senza sapere perché, in un gesto tanto disperato quanto inconscio, allunga la mano destra sotto il cuscino e quando le sue dita sentono il libro, lo stringono forte e la mano poi porta il libro sopra il petto, e con il libro la paura se ne va.

Adesso è tranquillo, e anche se non sa dove è, chi è e vede solo buio, il contatto con il libro lo rassicura, e rimane così per un tempo indefinibile, ore, forse minuti, fino a quando qualcuno bussa alla porta, senza attendere nessuna risposta entra nella stanza e va alla finestra a tirare su le tapparelle prima di girarsi verso l’uomo disteso sul letto e di dirgli sorridendo, parlando piano, come si parla ad un bambino:   «Buongiorno, Martino. Siamo pronti per andare a lavarci?»

L’uomo che per un attimo aveva chiuso gli occhi feriti dalla luce del giorno, li riapre e gira la testa per guardare la donna vestita di bianco che gli sorride. Sorride anche lui, senza la coscienza di stare sorridendo, e continua a tenersi stretto il libro sul petto. E sempre senza alcuna coscienza, lascia che la sconosciuta lo aiutiad alzarsi e dopo essersi sistemato il libro in un tascone del grembiule verde chiaro che indossa, si fa guidare, tenuto a braccetto e camminando a passi lenti, fuori della stanza, nel corridoio, verso un locale dove entrando per prima cosa vede se stesso in uno specchio. L’immagine di un vecchio, magro, con le occhiaie profonde e una ragnatela di rughe sul volto. Ma anche quello per lui è uno sconosciuto. Lui è uno di quelli che non si riconoscono allo specchio.



L’aria nel giardino è tiepida, soffia una brezza leggera che non disturba.

«E quello lì, quello che se ne sta seduto da solo sulla panchina in fondo, sotto il muro, quello chi è?2

«Ah, quello, quello è il Ramboldi. Martino Ramboldi.» risponde la dottoressa che sta facendo da guida al nuovo inserviente assunto nella clinica «Sta da noi ormai da diversi anni, 3, 4, forse anche di più. Quando era fuori, era un bravo professionista, dicono, non mi ricordo se fosse un ingegnere, un architetto, qualcosa del genere. Poi per l’età ha smesso di lavorare, gli è morta la moglie e lui ha avuto un crollo. Ecco, la cosa particolare, forse, è che nel suo caso l’evoluzione della demenza è stata più rapida, come tempi, di quello che ci si può aspettare in casi anche conclamati di Alzheimer come il suo. Per il resto, una storia come tante, ma tieni conto, te ne accorgerai presto, che qui le storie dei nostri ospiti sono tutte uguali».

«Ma perché se ne sta da solo e non gioca come gli altri?»

«Oh, beh, lui ci gioca, si, con gli altri, solo che non sempre ne ha voglia, o si stanca, non sappiamo, e allora va a sedersi là, quello è il suo posto favorito, e poi, quando ne ha voglia, torna a giocare con gli altri. Ma può stare là anche per un bel pezzo, alle volte tiene anche gli occhi chiusi, si potrebbe dire che dorme, ma non è così, non ha nessuna crisi o sintomo di letargia».

«Ma è uno di quelli tranquilli oppure può dare dei problemi?»

«Direi uno di quelli tranquilli, proprio. Ha poche crisi, abitualmente a lunga distanza l’una dall’altra, ma niente di che, non è uno di quelli che aggrediscono le persone o rompono le cose. Si calma da solo. Per quanto riguarda Martino, però, c’è una cosa che ti devo raccomandare. Martino porta sempre con sé, dovunque vada, nel suo grembiule oppure sotto il cuscino la notte quando dorme, un piccolo libro che si è portato da casa e che non lascia mai, ma proprio mai. Ecco, non sognarti di prenderglielo, neanche per un attimo, neanche di toccarlo: Martino ha per quell’oggetto un attaccamento ossessivo, e bisogna lasciarlo fare. La nostra psicologa dice che è per lui una forma di attaccamento alla realtà, una specie di ancora emotiva che rappresenta la sua stessa vita, o qualcosa del genere, se vuoi parla direttamente con la psicologa che ti spiega bene la cosa, anche se non so quanto ne valga la pena. La cosa importante è che quel libro è di Martino e basta, ed è meglio che se lo porti sempre dietro e che lo tocchi solo lui. In caso contrario sì, ci possono essere dei problemi, perché abbiamo visto che allora può diventare aggressivo e violento, veramente violento».

«Capito. Ma che libro è?»

«Boh.» la dottoressa scrolla le spalle con indifferenza «Non me ne ricordo... mi pare fosse un libro di poesie, poesie arabe credo, ma non so... è la sola cosa che ha voluto portarsi qua, quando è arrivato i figli ci hanno detto che aveva fatto il diavolo a quattro al momento di lasciare casa e che si era calmato solo dopo aver preso quel libro dalla sua stanza. La sua demenza era già in stadio avanzato, certo non sapeva più né leggere né scrivere, ma quell’oggetto era importante per lui, così i figli glielo hanno fatto tenere e poi lui s’è lasciato portare qua tranquillamente. E la stessa cosa funziona anche qui in clinica. Perciò, anche se sei curioso, non toccargli quel libro, mai. Se sei curioso e vuoi saperne di più, chiedi alla psicologa che ti dirà di sicuro titolo, autore e tutto quello che vuoi sapere su quel libro».



Martino apre gli occhi e rialza la testa. Come se non fossero parte del suo mondo, guarda indifferente tutti quegli uomini e donne che si tengono per mano e fanno il girotondo guidati da altri uomini e altre donne vestite di bianco. Con precauzione, anche se non sa né cosa sia ‘precauzione’ nè perché si comporta così, si gira sulla panchina in modo da dare la schiena agli altri e lentamente tira fuori dal tascone del grembiule il suo libro.

Lo guarda come se non l’avesse mai visto prima, ed in effetti per lui è proprio così. È un libro piccolo ma corposo, la copertina di colore grigio, con sopra dei segni rossi su cui qualcun altro avrebbe potuto leggere ‘Antologia del Golestan’. Senza curarsi troppo di quelle che per lui sono forme senza significato, sfoglia le pagine lentamente, una dopo l’altra, finché non arriva a trovare, stretto nel mezzo del volume, un minuscolo fiore appassito, di colore azzurro chiaro. Lo guarda e lo ammira. Quello sì che lo conosce, quello sì che sa cos’è. Certo, non lo sa la sua mente, sono piuttosto il suo cuore, il suo animo, forse il suo stesso spirito a riconoscerlo.

Era successo tanti anni prima, durante una di quelle lunghe passeggiate che lo portavano per quelle stesse strade che aveva già percorso più e più volte, tenendo per mano la donna amata, e ogni volta come se fosse stata la prima, perché lei col suo sorriso e le sue allegre risate illuminava quelle vie, quelle piazze, e sempre lui vedeva quella bellezza come se non l’avesse mai vista prima, come se fosse lei ogni volta a fare rinascere la bellezza stessa.

Poi lei se ne era andata. Lui non aveva avuto la forza, la decisione di andarsene assieme a lei, anche se ci pensava ogni volta che si affacciava alla finestra della sua camera e guardava in basso oppure quando attraversando un ponte si fermava a osservare l’acqua scura che scorreva sotto di lui.

Quel pomeriggio era arrivato nel Giardino delle Rose, un luogo amico pieno di ricordi di lei. Camminando fra i cespugli colorati e profumati, riconosceva quasi le orme di loro due abbracciati, e come gli capitava in questi momenti, i ricordi salivano e gli facevano il regalo di un lieve sorriso. Fu allora che passando lo sguardo sull’erba che costeggiava i sentieri del Roseto, si accorse di un piccolo, quasi minuscolo, fiore di colore celeste che stava quasi per calpestare. Non sapeva che fiore fosse, forse un myosotis, forse qualcos’altro, lui non conosceva i nomi dei fiori, a lui i fiori piacevano e li apprezzava, ma non aveva mai imparato a riconoscerli. Era lei che gli diceva i nomi e gli spiegava questo è quello, e lui faceva di sì con la testa e dopo qualche minuto aveva già dimenticato tutto.

Era rimasto colpito perché in quel fiore aveva riconosciuto lo stesso colore degli occhi di lei. Quel colore chiaro, come il cielo all’orizzonte, in cui si era perso un numero infinito di volte. Martino era un uomo che non credeva alle coincidenze e così, dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno a guardarlo, si era chinato e senza esitazione aveva raccolto il fiore facendo piano per non rovinarlo e dopo se lo era messo in tasca.

Più tardi, nello studio a casa sua, l’aveva tirato fuori e l’aveva posato sulla scrivania ed era rimasto per un bel po’ di tempo a rimirarlo e non riusciva a staccarci gli occhi di dosso fin quando, ad un certo punto, come colto a una improvvisa ispirazione, si alzò e si diresse verso uno degli scaffali della libreria. Qui, come ricordava bene, tra ‘Il Profeta’ di Gibran e una raccolta di haiku giapponesi, c’era l’ ‘Antologia del Golestan’, di Saadi. Edizione economica, tascabile, stampata in caratteri piccoli, un libercolo di scarsa importanza se paragonato a tanti altri volumi che teneva nella sua libreria, ma aveva pensato che quello fosse il libro giusto, dal momento che il termine Golestan, in persiano, significa appunto ‘Il Roseto’. Ne aveva scorso rapidamente le pagine, senza badare al contenuto, fino a fermarsi, senza un motivo preciso, in un punto dove, dopo un ultimo sguardo, aveva sistemato il fiorellino con estrema cautela e poi aveva rinchiuso il libro, che non aveva però rimesso al suo posto, ma era andato a posare sul suo comodino in camera da letto.

Da quel giorno in poi Martino, ogni sera, prima di addormentarsi (o, almeno, prima di provare ad addormentarsi), apriva il libro e passava un po’ di tempo a contemplare il fiore. Pian piano lo vide appassire, rinsecchirsi, proprio come stava appassendo e rinsecchendo lui, ma sempre manteneva il suo colore che, al calare della notte, era sempre la cosa più bella nelle giornate tristi, monotone e solitarie che conduceva. Perché è vero che un fiore rinchiuso non ha più alcun profumo, è vero che volare non è parlare del cielo, ma è anche vero che quando la luce se n’è andata, quando non ci si attende più nulla dalla vita, nemmeno la morte, allora ci accontentiamo anche di quei timidi, pallidi riflessi che la vita si degna di continuare a offrirci e così, senza nessuna speranza e senza nessun vero domani, andiamo avanti attraverso il nostro dolore.

Alla fine comunque il dolore se ne era andato, era stato sostituito dall’oblio che, se fosse stato in grado di farlo, Martino avrebbe riconosciuto più come un dono che come una condanna.


E adesso Martino se ne sta nel giardino della clinica dove l’hanno portato, se ne sta seduto in disparte, nel suo posto sulla panchina sotto il muro, a guardare un piccolo fiore secco e a passarci delicatemente sopra, per sfiorarlo appena appena, le sue lunghe e scarne dita di vecchio. E senza coscienza, senza sapere perché, nel vuoto della demenza dove nulla ha più importanza, dove nulla realmente esiste, dai suoi occhi sgorgano piccole, umide, salate gocce di una antica felicità che non intende essere dimenticata.


-----------------------------------------

Racconto primo classificato al Concorso nazionale per racconti brevi dedicato alla scrittrice Michela Turra "Amore e dintorni" 2022

sabato 19 agosto 2023

Palnatoke, in arte Guglielmo Tell

 

La storia di Guglielmo Tell la conosciamo tutti, e, come tanti, ci domandiamo se è una leggenda oppure no.

Con buona pace dei vicini svizzeri, diciamolo subito e fuori dai denti: questo personaggio non è mai esistito, o meglio: non è mai esistito in Svizzera perché Gugielmo Tell è danese!

Prendiamo in mano (beh, quasi: andiamo su Internet Archive -Dio li benedica- visto che c'è la versione online) i Gesta Danorum, un'opera dello storico Saxo Grammaticus del XII secolo, e scopriamo la storia di Palnatoke, che si svolge sotto il regno dal re danese Harold (911-987).

Stando al racconto di Saxo Grammaticus, Palnatoke (detto anche Toko, o Tokyo) era uno jarl (un guerriero nobile) vichingo di Jomsborg, che durante un banchetto si mette a vantare un po' troppo le sue abilità di arciere dicendo di essere in grado di colpire una mela anche piccola posata su una caraffa di vino alla distanza di 100 passi.

Il re allora decide di metterlo alla prova ma, da buona carognetta, pensa bene di far utilizzare come appoggio della mela non la caraffa ma la testa del figlio di Palnatoke e gli dice che se sbaglia e ammazza il figlio, poi il re avrebbe fatto ammazzare anche lui per... millantato credito, diremmo oggi.

Comunque Palntaoke accetta (non che avesse una qualche possibilità di scelta, intendiamoci), tira fuori tre frecce dalla sua faretra e le pianta per terra, pronte. Ad un segnale di Harold, prende una freccia, tende l'arco e tira: mela presa, figlio salvo, la gente applaude.

Harold però domanda perché avesse preparato tre frecce e l'arciere risponde che se avesse sbagliato e preso il figlio, la seconda freccia sarebbe stata per il re e la terza per se stesso. Allora Palnatoke viene imprigionato, però poi riesce a scappare dalla prigione e a far fuori il re cattivo.

La storia, che peraltro è narrata anche in altre saghe nordiche, è poi partita verso sud, ha attraversato la Germania, è arrivata in Svizzera e qua gli elvetici se la sono tenuta, l'hanno cambiata (ma poco poco), l'hanno ambientata ad Altdorf, hanno dato al vichingo Palnatoke un bel nome tedesco nuovo di zecca, Wilhelm Tell, e l'han fatta propria, e da allora quest'arciere è più svizzero della cioccolata e degli orologi a cucù.


--------------------------------------

Cfr.
Gesta danorum online: Saxonis Grammatici Gesta Danorvm
Wikipedia (voci: Gesta danorum, Guglielmo Tell, Palnatoke)
G. Breton, Les beaux mensognes de l'histoire, France Loisirs, 1999


Nella foto la statua di Guglielmo Tell ad Altdorf. A onor del vero, va detto che è dal 1901 che la storia di Guglielmo Tell è stata tolta dai libri di storia svizzeri.

mercoledì 16 agosto 2023

Il giacobino (racconto)

I popoli non giudicano allo stesso modo dei Tribunali: non emettono sentenze, lanciano fulmini; e questa giustizia vale quanto quella dei Tribunali.
Maximilien Robespierr
e


Era una bella automobile, pareva appena uscita dal concessionario, con la luce dei lampioni che mandava dalla carrozzeria immacolata riflessi lucidi, quasi splendenti. Era una vettura grande, imponente, incuteva rispetto e anche un po' di timore, con le ruote esagerate pronte a scalare montagne e attraversare fiumi ma decisamente fuori posto nelle strade cittadine e il muso largo e imponente, aggressivo, che con i fanali quadrati e la maschera del radiatore che sporgeva in fuori poteva ricordare il volto di un Dio pagano, malvagio e crudele. Nell'insieme, esprimeva un'idea mista di potere, arroganza, ricchezza e disprezzo per gli altri, idea peraltro confermata dal modo incivile in cui aveva per così dire parcheggiato il suo proprietario.

L'avevano sistemata appena fuori del portico, proprio di traverso sopra il marciapiede, e bloccava completamente i pedoni che, per proseguire nel loro percorso, erano costretti a girarci attorno, passando in mezzo alla strada. E anche se a quell'ora, nel dopo cena, di pedoni non ce n'erano poi tanti in giro, la faccenda non cambiava: era il classico comportamento di chi ha poco tempo da perdere e soprattutto nessuna voglia di cercare un parcheggio come la gente normale e quindi lascia la macchina dove più gli fa comodo, era il modo di fare di una persona per la quale esiste solo se stessa e gli altri passano in secondo piano, una persona che ha tutti i diritti e non deve rispondere a nessuno. E poi in quella strada, a quell'ora, in una serata di primo autunno freddina e umida, i vigili non passano più, non c'era pericolo che nessuno chiamasse il carro attrezzi, senza considerare che un'auto del genere apparteneva certamente a un uomo di potere, e gli uomini di potere sono quelli che hanno sempre qualche santo in paradiso e le multe se le fanno togliere -quando gliele danno.

Così la pensava, e probabilmente ci azzeccava, l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre. Stava tranquillamente facendosi una passeggiata tornando a casa dopo una serata passata con gli amici al bar Da Ottavio, una ex Casa del Popolo che aveva cambiato nome ma non clientela, e si era visto il proprio cammino bloccato da quella esagerazione a quattro ruote.

Una persona normale avrebbe girato attorno all’auto, al massimo ci avrebbe brontolato un po’ sopra e mandato all’inferno il proprietario, ma l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre no. Lui si era fermato e ora se ne stava a guardare il macchinone un po’ meditabondo, con le mani incrociate dietro la schiena, con un misto di sentimenti contrastanti, come gli capitava ogni volta che si trovava di fronte a parcheggi -e automobili- del genere. Da una parte, c'era una rabbia profonda nei confronti di quelli che se ne fregano completamente dei diritti altrui, quelli che pensano che l'universo ruoti attorno a loro e che tutto sia loro dovuto, un vero e proprio odio verso l'arroganza superba del ricco e del potente che si esprimeva in comportamenti di quel genere, comportamenti incivili a dire poco. Dall'altra, c’era un sentimento quasi opposto, un misto di eccitazione e piacere, che nasceva dall’avere trovato ancora una volta l'occasione di esercitare un po' di giustizia. Non vendetta invidiosa, non cattiveria gratuita: giustizia.

Il terrore non è altro che giustizia pronta, severa, inflessibile. È quindi una emanazione di virtù.
Maximilien Robespierre

L'uomo si frugò nella tasca interna del giaccone per vedere se si fosse ricordato di portare con sé qualche biglietto di quelli che aveva stampato tempo addietro e che ormai avrebbe dovuto ristampare perché non gliene erano rimasti poi tanti. I biglietti c'erano. Bene, questo gli avrebbe fatto risparmiare tempo. Si guardò attorno. Non c’era nessuno. Sapeva che una decina di metri più avanti, dietro l’angolo, si trovava un ristorante, con tutta probabilità la meta del proprietario dell’automobile, ma la cosa non lo preoccupava: a quell’ora erano di sicuro ancora a tavola, anzi se tendeva l’orecchio riusciva a sentire il vocio dei clienti, e se anche qualcuno fosse uscito per fumarsi una sigaretta, si sarebbe fermato fuori della porta del locale. Fu quindi con tranquillità che, dopo essersi guardato di nuovo attorno e anche dietro, per vedere che non ci fosse nessuno in giro, si avvicinò all’automobile dal lato che gli stava impedendo il cammino, il lato del passeggero e, quasi con noncuranza, si posizionò sul fianco della vettura e si appoggiò, sempre con fare indifferente, sulla portiera. Poi ruotando su se stesso, appoggiò la schiena sullo specchietto e spinse, continuando a far forza lentamente ma con decisione, finché non sentì un rumore che conosceva bene, quello di un supporto di specchietto che cede. Sempre con calma assoluta, e sempre guardandosi attorno, si girò e si spostò indietro per contemplare la sua opera. Niente male: la rottura dell'attacco era stata netta e lo specchietto ora penzolava appeso ai fili elettrici che lo comandavano dall'interno. Bene. L'uomo tirò fuori da sotto il giaccone uno dei suoi biglietti per sistemarlo per bene tra il vetro del parabrezza e il tergicristallo. Proprio come una multa, pensò l'uomo posizionando il cartellino, necessario per far capire a quell’animale che doveva essere il proprietario che non si trattava di vandalismo, ma di giustizia, e infatti sopra c’era scritto, in grandi caratteri maiuscoli: “IMPARA A PARCHEGGIARE MEGLIO”.

Giustizia quindi era fatta, però l’uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre non ne era convinto del tutto. Si riparò un po’ nascosto sotto l’ombra del portico e incominciò a riflettere. Uhm. Un parcheggio come quello era proprio una cosa ignobile, vergognosa, e il suo autore doveva essere un individuo miserabile e spregevole, un incivile indegno di vivere in un consesso umano. La logica conseguenza di tale ragionamento era che la pena doveva essere proporzionata all' offesa, quindi ci voleva un trattamento esemplare.

Mise allora una mano sotto il cappotto e, seguendo la catenina con con cui lo teneva assicurato alla cintura, arrivò ad un portachiavi che teneva sempre in tasca e a cui era attaccato un piccolo coltellino a serramanico di color verde. Estratto il coltellino, con l’unghia ne fece uscire la lama, una piccola lama di neanche 3 cm, ma tenuta sempre bene affilata.

Di lasciare semplicemente qualche graffio sulla carrozzeria non se ne parlava, di sicuro avrebbe avuto un certo effetto, ma era roba da teppistelli, ci voleva qualcosa di più, una scritta oppure un disegno per ribadire con chiarezza all'incivile il concetto. Che cosa avrebbe potuto incidere allora? Beh, poteva essere una scritta sarcastica del tipo “GRAN BEL PARCHEGGIO”, o magari anche un semplice e sempre efficace “PARCHEGGIO DI M**DA” sarebbe bastato, però col biglietto la motivazione era già chiara a sufficienza, sarebbe stata una cosa in più, quello che serviva ora era un qualcosa che riguardasse quell’animale del proprietario. Naturalmente, poteva essere sufficiente una sola parola, come “S****ZO” oppure “C*****NE”, lo scopo sarebbe stato comunque raggiunto, ma il proprietario di quella massa di ferro e superbia meritava qualcosa di più. Vediamo. “GLI INCIVILI COME TE DEVONO PRENDERE L’AUTOBUS” era troppo lungo, è vero che non c'era nessuno in giro, ma non si sa mai, poteva malauguratamente capitare di dover lasciare il mssaggio a metà. Mmm… Forse qualcosa che avrebbe fatto vergognare sia il proprietario che quelli che stavano in macchina con lui… Ci rimuginò un po’ sopra e finalmente gli venne in mente l’idea giusta: un bel “TRASPORTO LETAME” da incidere a fondo sulla portiera dalla parte del passeggero. Guardò l’automobile e provò ad immaginarsi la scritta sulla portiera e sopra, dietro il finestrino, il profilo di una bella ed elegante signora. Sì, poteva andare, proprio un bell'effetto.

Sempre guardingo, si avvicinò di nuovo alla vettura e tenendosi un po' curvo per non farsi vedere incominciò col coltellino a incidere la lettera 'T' sulla portiera lucente, e la vernice veniva via a piccoli riccioli argentati.

Punire gli oppressori dell'umanità è clemenza, perdonarli è crudeltà.
Maximilien Robespierre

Ripreso il cammino verso casa, nonostante fosse pervaso da una certa soddisfazione per il lavoro svolto, l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre prese a ripensare a ciò che aveva fatto e, come gli era già capitato in altre occasioni, fu preso da una specie di dubbio e si domandò se non avesse esagerato, forse bastava solo lo specchietto, se non avesse calcato troppo la mano per dare sfogo a uno sterile sentimento di rivalsa o di vendetta, magari con un fondo di inconfessata e inconfessabile invidia.

Però, più ci pensava, più non poteva far altro che darsi ragione. Quelli che acquistano un’automobile di quel tipo, era convinto, lo fanno solo per esibirla e di conseguenza esibire, attraverso l’oggetto, la propria condizione economica e il proprio status. Se così non fosse, auto del genere, completamente inadeguate alla guida in città, fuori luogo vuoi per la dimensione che per il consumo, verrebbero utilizzate solo in campagna o in montagna, per guidare lungo prati e strade impervie: lo scopo essenziale, primario, di coloro che le acquistano e le guidano in città è appunto quello di dimostrare potere e superiorità nei confronti di tutti quelli che non si possono permettere certi lussi. Ma dal momento che dalla superiorità al dominio il passo è breve, quando al semplice possesso di quel tipo di veicoli si aggiunge un modo di parcheggiare completamente incurante dei diritti e delle esigenze degli altri, in quel caso la questione si configurava come un libero arbitrio, un abuso, in definitiva una sopraffazione, e denunciava apertamente il suo proprietario come una persona indegna del consesso civile, una persona che al diritto aveva sostituito la legge del più forte e che per questo doveva essere condannato. E con queste argomentazioni, logiche e intaccabili almeno nel suo pensiero, l'uomo finiva ogni volta per giustificarsi ed assolversi: in fin dei conti lui non faceva altro che portare giustizia dove nessun altro la portava.

La virtù è l'essenza della Repubblica. Il terrore senza la virtù è funesto.
Maximilien Robespierre

Immerso nelle sue riflessioni, l'uomo era ormai arrivato nella via dove abitava e, come al solito si fermò al fianco della sua, di auto, parcheggiata sul lato della strada, perché la sua abitazione non aveva il garage. “Questo si chiama parcheggiare, parcheggiare bene.” - pensò guardando come le gomme erano tutte ben dentro le strisce bianche, proprio nel centro dello spazio delimitato in modo tale da permettere movimenti agevoli anche alle altre auto. Gli specchietti esterni erano stati ben ripiegati, così da evitare ulteriormente ogni possibile intralcio ad altri automobilisti, ciclisti o ai pedoni sul marciapiede. Questa era quella che l'uomo chiamava virtù, e cioè fare del proprio meglio, anche in questioni banali come parcheggiare l'auto per favorire, aiutare, soprattutto non causare in alcun modo disturbo alle altre persone. Era una questione di civiltà e di rispetto per gli altri, ed era fermamente convinto che, se tutti si fossero comportati come lui, la vita sarebbe stata più semplice e migliore, magari di poco, ma migliore. 

Alle volte, certo, poteva capitare che questo suo comportamento, queste sue attenzioni quasi maniacali venissero consierate inutili: la moglie alzava spesso le sopracciglia e faceva un sorrisetto ironico quando lo vedeva perdere tempo a fare manovre dopo manovre per posizionare l'auto alla perfezione, con una pignoleria esasperata. E anche lui ben sapeva che un po' in fuori o un po' in dentro non cambiava nulla e le cose andavano avanti lo stesso, ma tant'era: lui le cose doveva farle per bene, era una questione di virtù, anzi della Virtù intesa come base per la convivenza sociale. Comportarsi con virtù dimostrava che la virtù stessa era possibile, e che chi non la praticava era colpevole, e doveva essere punito. Ancora più rinfrancato e convinto della giustizia delle proprie azioni, l'uomo tirò fuori le chiavi di casa ed entrò.

Un vero rivoluzionario dovrebbe essere pronto a perire nel processo.
Maximilien Robespierre

Erano passate le 4 di sera, l'inverno si stava già mangiando la luce del giorno, i lampioni si erano accesi e stava già diventando buio. L'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre era imbottigliato nel traffico del venerdì sera. Era nervoso perché l'ufficio dove si doveva recare chiudeva alle 17, e lui doveva, anzi: voleva, era per lui una questione di principio, consegnare i documenti in tempo.

Aveva fatto bene i conti per l'uscita, solo quel traffico l'aveva rallentato di molto, e ora rischiava di non farcela. Tamburellò nervosamente le dita sul volante. Ecco, finalmente qualcosa si era mosso e le auto avevano ripreso a scorrere. Arrivò in piazza Garibaldi che mancavano pochi minuti alla chiusura dell'ufficio. Fece due volte il giro del piazzale, ma non gli riuscì di trovare un posto libero per parcheggiare. Dannazione. A dir la verità, se lui non fosse stato lui, avrebbe potuto parcheggiare a pochi metri di distanza dal palazzo a cui era diretto, praticamente dall’altra parte della strada, sistemando l’auto appena fuori delle postazioni segnate però occupando in questo modo parte delle strisce di attraversamento pedonale, ma era una cosa che andava decisamente contro i propri principi. Sennonché, dopo un terzo, inutile giro per trovare un parcheggio libero, gli fu chiaro che se voleva consegnare per tempo i documenti, avrebbe dovuto commettere una trasgressione di quelle che aveva sempre condannato negli altri. Guardò l'orologio, mancavano ormai pochi minuti alle 17 e con una decisione tanto improvvisa quanto sofferta, fece un ulteriore giro della piazza e si andò a fermare sopra le strisce pedonali. Disse a se stesso che ci sarebbe stato solo per pochi minuti, che in realtà non intralciava nessuno e che si poteva comunque attraversare la strada senza problemi, che ormai era buio e gente in giro a piedi non ce n'era, che nessuno se ne sarebbe nemmeno accorto, che anche il rispettare le scadenze era una questione importante… ma nonostante questi suoi pensieri avessero tutti una certa logica, quando smontò dalla sua auto e si avviò verso l'ufficio aveva una specie di peso nell'anima, la coscienza di avere abbandonato, sia pure per poco, la strada della virtù.

Era trascorso neanche un quarto d’ora e l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre aveva fatto in tempo a consegnare i documenti e adesso soddisfatto se ne stava facendo ritorno alla macchina quando, prima di attraversare la strada, si fermò e la guardò da lontano. Proprio un brutto parcheggio, di quelli che no, non dovevano essere fatti. Riconobbe nel suo comportamento una trasgressione, la colpa del mancato rispetto dei diritti altrui. Che importava se non c'era nessuno in giro? Che importava se c'era stata una oggettiva necessità? Una necessità non giustifica l'abuso, e anche se l'abuso non aveva danneggiato nessuno, l'abuso c'era stato. E doveva essere punito. Sentì un groppo alla gola, ma fu solo un attimo e la sua decisione fu presa. Si rese conto che quello che stava per fare era una cosa assurda, folle e probabilmente perfino ridicola, ma non poteva mancare ai suoi principi una volta ancora, non poteva tralasciare di punire e punirsi per ciò che aveva fatto. Con una piccola lacrima che scivolò giù per la fredda guancia, lentamente staccò il coltellino dal portachiavi alla cintura e si avviò per l'opera di giustizia. Robespierre l'avrebbe capito, Robespierre avrebbe fatto lo stesso.

Avvicinandosi alla macchina dal lato del marciapiede, si accorse però che qualcuno, con un chiodo o un altro aggeggio appuntito, gli aveva già rigato la macchina incidendoci sopra “PARCHEGGIO DI M**DA. Prima rimase a bocca aperta, stupito, ma poi non riuscì a trattenere un sorriso: l'idea si stava facendo strada.

--------------------

Questo racconto ha conseguito il terzo posto ex aequo con merito di pubblicazione al Premio Letterario Seven 2023
.
-----------------

E tanto per mettere le cose in chiaro: questo racconto è stato scritto nel 2021, 2 anni prima di quello che è successo a Roma con Free Park...