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giovedì 30 giugno 2022

Nutrirsi di comunicazione

 

Nato nel 1976 a Castelmazzo, Pier Maria Fringuecci, vivente, è a tutt'oggi oggetto di studio e ricerche congiunte da parte di medici e di ingegneri della comunicazione.

Fu il capitano medico alla visita militare che si accorse che i capelli del coscritto non erano semplici filamenti proteici ma fungevano da antenna ricevente con cui il Fringuecci poteva captare vari programmi televisivi.  I successivi esami da parte di specialisti stabilirono che ad ogni singolo follicolo corrispondeva una specifica emittente, uno specifico canale o una specifica trasmissione e che la ricezione di queste continuava in ogni momento del giorno e non era controllabile da parte della persona. 

Ulteriori ricerche (tuttora in corso) appurarono che nei flussi captati ed assorbiti dal Fringuecci sono presenti tutte le principali emittenti nazionali e che in presenza di nuove trasmissioni e nuovi programmi si attivano nuovi follicoli per recepire anche questi, così come si attivano nuovi follicoli per le emittenti locali quando l'individuo per qualche motivo si sposta ad esempio da una regione all'altra. 

Anche se il Fringuecci non riesce a selezionare, interrompere o modificare in qualche modo le diverse trasmissioni, la continua ricezione di un tale e ininterrotto flusso di informazioni sembra comunque non comportare particolari effetti dannosi a livello fisico, se non per il fatto che, col tempo, ha iniziato a nutrirsi sempre meno di cibi tradizionali e ha sviluppato una sorta di sintesi metabolica per cui si nutre solo di comunicazioni televisive: ormai sono più di 20 anni che non tocca cibo di alcun genere eppure -altro mistero del suo strano metabolismo- ogni giorno produce una quantità di escrementi equivalente a quasi 40 volte il suo peso corporeo.




sabato 4 giugno 2022

La Chiave Esagonale della Brianza

Probabilmente mai nessun soprannome fu più azzeccato di quello attribuito a Giuseppino Brugola, conosciuto da tutti come "La Multipla della Brianza", che dagli anni '20 del secolo scorso fino al dopoguerra fu l'operaio specializzato in fissaggio più noto e apprezzato di tutto il Nord Italia: ogni officina, ogni fabbrica grande e piccola si faceva onore e vanto di poter usufruire delle sue leggendarie abilità. In realtà, lui avrebbe preferito essere chiamato "La Chiave Esagonale della Brianza", perché è vero che la sua area di lavoro era soprattutto la Brianza ed è vero che poteva fissare ogni tipo di dado, però la sua specializzazione e la sua passione, quella in cui dava il meglio di sé con performances memorabili, era il fissaggio di dadi esagonali di misura compresa da 11/16" a 5 e 3/4" pollici. 

Quello che rendeva unico il lavoro del Brugola era la sua perizia nel procedere al fissaggio di qualsiasi tipo di dado utilizzando solamente le dita della mano destra, unendo alla forza fisica necessaria all'operazione una delicatezza, una sensibilità tale che rendeva i suoi fissaggi di una precisione assoluta, dal momento all'epoca non c'era nessuna strumentazione né alcun strumento in grado di controllare e stabilire il punto esatto in cui si doveva fermare il lavoro di avvitamento senza che fosse né troppo lasco né troppo stretto. In quegli anni, i dadi fissati da Giuseppino Brugola rappresentarono la perfezione e ancor oggi sono oggetto di studi (alcuni di essi sono ancora conservati con cura nel Museo dell'Officina a Pedalate) e nemmeno i più moderni dadi ciechi autobloccanti sono in grado di reggere il paragone con questi.

In una lunga intervista rilasciata a "La Domenica Italiana" nel 1962, quando ormai era pensionato, Giuseppino Brugola raccontò che nel suo lavoro si serviva anche di una ulteriore e irripetibile capacità, cioè quella di essere in grado, alla bisogna, di secernere da sotto le unghie un liquido denso e oleoso, che gli serviva sia in fase di avvitamento che di eventuale svitamento, ma che la sua modestia e la volontà di non umiliare i colleghi gli aveva impedito di rivelare la cosa all'epoca della sua massima fama.

Nella stessa intervista, confessò anche il suo rimpianto per non avere avuto un figlio per potergli trasmettere e insegnare quella che per lui era un'arte, e questo perché tutte le sue fidanzate dopo qualche tempo lo lasciavano perché le sue carezze erano sì amorose e delicate, ma le sue mani, dicevano, "emanavano un forte, insopportabile odore di olio di officina".








venerdì 20 maggio 2022

Le scarpe del ballerino


Almerindo Fiorindo De Rigobertis è stato uno dei più noti e applauditi ballerini degli inizi del '900.

I suoi esordi però non furono facili: sul palco il De Rigobertis era goffo e scoordinato, non riusciva ad andare a tempo né con la musica né con gli altri ballerini, e trovava ingaggi solo in spettacoli di quart'ordine come "ballerino buffo", dal momento che i suoi miseri tentativi suscitavano l'ilarità degli spettatori. Di questo, l'artista soffriva molto, ma sopportava perché la passione per la danza era la sua vita e pur di potersi esibire era disposto a subire anche il ridicolo.

Nel settembre del 1902, però, si presentò ad uno dei più noti impresari dell'epoca e e riuscì ad ottenere una audizione. Come racconta l'impresario: "Abitualmente non do alcuna retta a postulanti sconosciuti, ma negli occhi quest'uomo aveva un qualcosa, una certezza nelle sue capacità che mi colpì e, sia pur riluttante, gli concessi un provino. Fu incredibile, rimasi senza fiato: io avevo visto i migliori ballerini russi ed europei, ma il De Rigobertis mi lasciò senza fiato, sembrava di vedere l'arte, la grazia e la potenza di Nižinskij, Legat, Gerdt e Fokine assieme. in una sola persona". Fu l'inizio di una carriera strepitosa, che lo portò ad esibirsi nei principali teatri d'Europa da Roma a Parigi a San Pietroburgo, e ad offuscare con le sue straordinarie ed inarrivabili capacità tutti gli altri danzatori dell'epoca, provocando una vera e propria catena di suicidi tra questi, disperati dal fatto che non sarebbero mai stati capaci di arrivare a simili altezze.

Fu una carriera però di breve durata. La polizia italiana si era accorta che in concomitanza con la presenza del ballerino nelle diverse città si verificava lo stesso, inspiegabile fenomeno: molti cittadini infatti avevano sporto denuncia affermando che, durante la notte, mentre passeggiavano, erano stati presi a calci nel sedere da qualcuno apparentemente invisibile, dal momento che girandosi per reagire contro il loro aggressore, non vedevano nessuno, ma sentivano solo un veloce scalpiccio allontanarsi.

Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio 1907, a Forlimpopoli, la polizia appostata fuori del Gran Hotel Ordelaffi, dove l'artista pernottava riposandosi da uno degli abituali ma sempre clamorosi successi, riuscì a catturare le scarpe del ballerino mentre cercavano di rientrare furtivamente nell'albergo. Dopo il loro arresto, il De Rigobertis venne anch'esso portato in questura e dopo lunghi e pesanti interrogatori, confessò: nel 1902, disperato per la sua inabilità nella danza, aveva fatto un patto col Demonio, e il merito della sua arte non era suo ma andava alle scarpe che il diavolo gli aveva procurato e che lo facevano danzare in maniera eccelsa; in cambio, doveva impegnarsi a lasciare libere le scarpe, la notte, di uscire per andare a prendere a calci i passanti.

Questo segnò ovviamente la fine di Almerindo Fiorindo De Rigobertis, che venne condannato per le aggressioni perpetrate e trascorse gli ultimi anni in carcere, adattandosi a fare piccoli lavori di calzatura per i suoi compagni e per i secondini, Quanto alle scarpe, queste rimasero nella questura di Forlimpopoli, ma una notte riuscirono a sfondare a calci l'armadio dov'erano richiuse, fuggirono e nessuno seppe mai che fine avessero fatto.




martedì 29 giugno 2021

Il violinista dimenticato


Anche se il suo nome viene pronunciato raramente e sempre con qualche imbarazzo da parte di critici e musicisti contemporanei, Gualberto Rigadoni è stato un violinista eccezionale, probabilmente il virtuoso più dotato e capace del ventesimo secolo.

Rigadoni iniziò a suonare il violino all'età di 3 anni e già a 5 si esibiva suonando sia da solista che in compagini orchestrali e prima di arrivare alla maggiore età aveva già raggiunto una fama tale da essere considerato alla pari se non superiore al grande Paganini.  Raccolse sempre enormi successi e unanimi riconoscimenti sia del pubblico che della critica anche se la sua capacità espressiva e la sua padronanza tecnica erano talmente eccelse da causare tra gli altri violinisti, anche quelli più importanti e quotati, una vera sindrome depressiva che in diversi casi portò al suicidio degli sventurati. 

Divenne anche enormemente ricco grazie ai suoi ingaggi per cifre esorbitanti, poteva chiedere qualunque cifra per le sue prestazioni ed era sempre accontentato, così come era richiestissimo e conteso da tutte le più prestigiose orchestre e rimase famosa nelle cronache la lite furibonda al foyer dell'Opera di Parigi tra Carlos Kleiber e Leonard Bernstein, finita a pugni e calci tra i due maestri che si contendevano la firma dell'artista.

Al culmine della sua gloria, per poter "vivere meglio" il proprio strumento, Rigadoni in una clinica svizzera si fece innestare il suo amato violino (un Guarneri del Gesù del 1737) direttamente sulla spalla sinistra, mentre la mano destra venne amputata e sostituita da un archetto in ebano. Il dover convivere con questi strumenti come appendici del suo corpo utilizzandoli anche durante le incombenze di vita normali, come guidare la macchina, lavarsi, mangiare, ecc., accrebbe ancor più la sua maestria e padronanza dello strumento anche se, va detto, non riuscì più a trovare un sarto che gli confezionasse un frac su misura ed era costretto ad esibirsi in accappatoio.

Pur attraverso le comprensibili critiche e accuse utilizzo di mezzi immorali, la scelta radicale operata del Rigadoni venne accettata in nome della indiscutibile qualità delle sue esecuzioni che raggiunse vette fino ad allora impensabili. Questa scelta fu però anche l'inizio della sua fine quando scoppiò lo scandalo Henriquez Dedoshierro, un chitarrista classico spagnolo che seguendo l'esempio del grande violinista si era fatto innestare al posto delle dita delle mani dei sottili plettri d'acciaio e che ebbe un'emorragia fatale scaccolandosi il naso.

Critici e nemici del Rigadoni tornarono all'attacco, l'opinione pubblica li seguì e in ogni stato vennero approvate leggi che vietarono gli innesti e trapianti nel corpo umano di strumenti  a scopo musicale. In questo modo, il violinista cadde in disgrazia, non trovò più nessun ingaggio e finì esibendosi per  pochi soldi come fenomeno da baraccone in piccoli circhi di periferia.







martedì 25 maggio 2021

L'odore dei pesci


I tutti i biografi sono concordi nello stabilire che fu quasi per caso che Olindo Martinoni divenne l'importante ricercatore che tutti conoscono e che ci lasciò il poderoso trattato "Odore dei pesci", ancor oggi riferimento unico e principe per tutti gli studiosi di psarimirodiologia.

All'epoca, nel 1922, il Martinoni era un semplice pescatore a fiocina che grazie alla potenza dei polmoni (poteva restare sott'acqua in apnea per oltre 10 minuti) si occupava anche del recupero di oggetti perduti in mare sul litorale toscano tra Piombino e Follonica. Fu qui che una mattina si imbatté in una squadra di studiosi dell'Università di Genova che cercavano di stabilire i tempi di decomposizione di una cernia in base al cambiamento di odore. 

Interpellato dagli studiosi per sapere da quanto tempo, in base alla propria esperienza, la cernia era stata pescata, Il Martinoni rispose che non si intendeva di pesci morti, lui quello che pescava lo portava subito al mercato, però fece loro notare che l'odore della cernia da viva, in mare, era alquanto diverso, era molto buono ricordava il gelsomino in fiore ma che, come tutti i pesci perdeva il suo odore quando usciva dall'acqua. Stupiti, gli studiosi vollero saperne di più e così scoprirono che l'uomo aveva la capacità unica di sentire gli odori anche sott'acqua, e la loro meraviglia a sua volta stupì il pescatore, che pensava fosse questa una capacità comune a tutti gli esseri umani.

Fu grazie a questo incontro che l'abilità del Martinoni venne adeguatamente sfruttata, e sotto la guida degli stessi studiosi iniziò un lavoro di ricerca e studio che durò per parecchi anni e che portò ad identificare l'odore naturale che i pesci hanno nel loro habitat. Quasi tutta la fauna ittica delle coste tirreniche e del mar Ligure venne annusata e opportunamente schedata, ed è solo grazie al Martinoni che possiamo sapere ad esempio che la spigola ha un odore pungente di erba tagliata, il cefalo invece profuma come le bucce di agrumi, il dentice ha un aroma penetrantedi pipì di gatto siamese,  il tonno sa di olio combusto, ecc. ecc...: gli appassionati possono sempre rifarsi allo studio già citato per avere riferimenti completi. 

Va detto che non fu una ricerca semplice e che ci furono studiosi (di altre università) che non vollero riconoscerne la piena validità scientifica in quanto non ci poteva essere alcuna verifica oggettiva, e insinuavano che la ricciola magari non odorava veramente di aceto di mele, come affermava il Martinoni, e che poteva anche odorare di pneumatico bruciato, o di sapone di Marsiglia. Col tempo però i detrattori, non potendo a loro volta confutare il lavoro fatto, ritirarono le loro accuse e ormai tutto il mondo scientifico è concorde nel riconoscere i meriti del pescatore toscano e la validità della ricerca svolta.

lunedì 17 maggio 2021

L'uomo che si scioglie

 L'uomo brodo

Come racconta egli stesso, fu nel periodo della pubertà che Evarisio Prabella  si accorse che in determinate occasioni, quando era accaldato per essere stato troppo al sole o dopo una partita di calcio con gli amici, la normale sudorazione non si fermava ma anzi persisteva e l'intero suo corpo tendeva a sciogliersi e tornava alla condizione originaria solo quando lui oppure l'ambiente attorno a lui subiva un raffreddamento.

Quando ne parlò a casa, allarmato perché pensava ad una grave malattia, fu suo padre a tranquillizzarlo spiegandogli che c'erano già stati diversi altri casi come il suo in famiglia e che non c'era niente di cui avere paura anche se, naturalmente, c'erano da prendere alcune necessarie precauzioni. In questo modo, con l'appoggio di tutta la famiglia, Evarisio fu pronto ad affrontare e convivere con il suo singolare disturbo quando questo, verso i vent'anni,  si stabilizzò e divenne cronico. 

Da quel periodo in avanti, fino a oggi e si spera per molti altri anni ancora, Evarisio Prabella  vive nella singolare condizione di potersi trasformare, in presenza di fonti di calore sia naturali che artificiali, in un vero e proprio brodo di carne. Per ovviare a questo, l'uomo porta sotto gli abiti un impianto di refrigerazione a batteria che mantiene il suo corpo ad una temperatura ideale di 1-2 gradi sopra lo zero, permettendogli in tal modo di aver una vita perfettamente normale, un buon lavoro e diverse attività sociali e culturali.

Quest'impianto di refrigerazione però alle volte diventa un po' fastidioso e allora, quando non ha obblighi di lavoro o di altro genere, Evarisio preferisce non utilizzarlo. La cosa in genere non crea problemi perché la sua trasformazione non avviene in modo immediato ma si sviluppa gradualmente e lui ha tutto il tempo di porci rimedio abbassando in qualche modo la temperatura del corpo o semplicemente recandosi in un luogo più freddo. Ad esempio, nel quartiere dove abita, soprattutto nelle afose giornate d'estate, capita di vederlo entrare nella bottega del macellaio per chiedere di ospitarlo per un po' nella cella frigorifera o di entrare in un bar e chiedere di poter accomodarsi nella cassa dei gelati fino al ripristino della sua condizione, e va detto che queste son richieste che vengono esaudite con piacere e lui è una persona simpatica, è benvoluto da tutti nel quartiere ed è un piacere stare in sua compagnia.

A casa però, nella tranquillità dell'ambiente domestico, confessa che gli piace alzare per un po' il termostato fino ad una temperatura attorno ai 26 gradi, perché a quella temperatura il suo corpo si trasforma in una specie di gelatina che, pur permettendogli le normali attività, gli risulta particolarmente gradevole e rilassante anche se deve stare attento a non addormentarsi davanti alla televisione per non risvegliarsi colato sul pavimento. E poi Evarisio, che non si è mai sposato e vive da solo, ama i bambini e i suoi nipotini sono sempre contenti di andare a trovare lo zio perché gli ficcano le dita nel corpo e ridono come matti quando tirano via di colpo il dito e il corpo dello zio fa "flusc!" quando si richiude. A dir la verità, le dita infilate gli fanno solletico, ma lui lascia fare perché gli piace troppo sentire i bambini ridere. 


Un prete fra le nuvole

Il prete della pioggia

Fulgenzio Battistini, nato nel 1902 e morto nel 1981,  fu un sacerdote per molti versi anomalo e altri versi un verso precursore: sono molti infatti al giorno d'oggi gli ecclesiastici che, vuoi per stare più vicino e fare da guida ai propri fedeli, vuoi per mantenere in esercizio il proprio corpo (considerato anch'esso un dono di Dio), si occupano attivamente di attività sportive di vario genere, ma Don Fulgenzio fu uno dei primi in queste attività.

Fin dagli anni del seminario infatti fu un valente alpinista, rocciatore, sciatore, marciatore e podista, ed ottenne persino una dispensa vescovile per poter frequentare palestre dove praticò con successo non solo svariate specialità di atletica ma anche pugilato, lotta greco-romana e sollevamento pesi. Nominato nel 1938 cappellano militare presso il Reggimento paracadutisti "Fanti dell'aria", Don Fulgenzio non esitò a seguire anch'egli i corsi di formazione e divenne anch'egli un paracadutista provetto tanto che, anche se naturalmente non partecipò direttamente alle azioni, seguì i militari in diverse operazioni  e missioni belliche.

Dopo la guerra, anche se non più inquadrato nell'esercito, il sacerdote continuò, sempre con apposita dispensa vescovile, a praticare il paracadutismo e divenne noto nell'ambiente come "Il prete della pioggia", per la sua singolare abitudine di farsi portare sopra annuvolamenti a bassa quota, forieri appunto di pioggia, e da lì lanciarsi, aprire il paracadute e poi atterrare passando attraverso le nuvole stesse.

Fu solo dopo la morte di Don Fulgenzio che si comprese il motivo di questa abitudine, quando il Vescovo da cui dipendeva -e che era l'unico a conoscerne il segreto, rivelò che il prete durante la discesa, nel momento dell'attraversamento delle nuvole, estraeva un aspersorio che teneva ben celato in uno zainetto frontale e procedeva alla benedizione della nuvola in cui si trovava. In questo modo la benedizione, secondo le intenzioni del sacerdote e del suo superiore, si sarebbe allargata a tutta la nube e, con la successiva pioggia, sarebbero state benedette una grandissima quantità di persone, animali, luoghi e cose che sarebbe stato praticamente impossibile benedire singolarmente.

A tutt'oggi le autorità ecclesiastiche non si sono ancora espresse su questa forma di benedizione, e la causa di beatificazione di Fulgenzio Battistini, nonostante le pressanti richieste del Vescovo prima e dei suoi successori poi, resta ancora in sospeso.


mercoledì 12 maggio 2021

Vittima del muschio

Come ebbe a raccontare in una rara intervista concessa al settimanale "La Domenica Italiana" nel 1951, fu nel settembre del 1948 che Tarcisio Tavagnacchi si accorse che il muschio stava incominciando a crescere su di lui: all'inizio si era trattato di piccoli pezzi di muschio che si attaccavano alle scarpe e che poteva facilmente scuotere via, ma col tempo la crescita del muschio divenne sempre più aggressiva e incominciò a diventare un vero problema.

Infatti, il muschio prese a crescere sempre più in fretta e sempre più resistente e se non veniva strappato via, in poche ore cresceva rapidamente sopra il lato esterno della scarpa e si arrampicava poi lungo i calzini e la gamba, e il fatto che la crescita del muschio avvenisse all'esterno dei pantaloni e non all'interno complicava le cose perché era difficile tenere nascosta la cosa.

Fu in quel momento che cominciarono le disgrazie per il poveretto. Per prima fu la moglie ad abbandonarlo andandosene di casa con la figlia dodicenne per paura che si trattasse di una malattia contagiosa. Poi al lavoro il Tavagnacchi (che ricopriva il ruolo di impiegato semplice al Provveditorato), era costretto sempre più spesso ad allontanarsi dallo sportello per recarsi in bagno per strapparsi di dosso il muschio, attirando la curiosità dei colleghi che alla fine se ne accorsero e fecero rapporto e di conseguenza il Direttore, pensando comprensibilmente al disdoro che arrecava all' intero Istituto, fu costretto a licenziarlo.

Dopo un tentativo fallito di lavorare come fenomeno di baraccone in qualche circo (a nessuno piace star fermo delle ore a vedere il muschio che cresce, sia pure addosso ad una persona), il Tavagnacchi venne assunto da un'associazione di Giovani Esploratori che lo portavano con loro nelle escursioni utilizzandolo come bussola umana per individuare il nord. Purtroppo, un Capo Scout si accorse che sull’uomo il muschio non cresceva a nord, ma era lui stesso che si posizionava correttamente servendosi di nascosto di una normale bussola da pochi soldi e per questo venne licenziato anche da quest'ultimo lavoro.

Sopraffatto dalla vergogna e abbandonato da tutti, Tarcisio Tavagnacchi nel febbraio del 1952 si recò in un bosco sulle colline del Monferrato e lì si lasciò crescere addosso il muschio fino a morirne soffocato.




martedì 11 maggio 2021

Il segreto del ventriloquo

 Arminio Biccanti 

Il ventriloquo Arminio Biccanti, vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, godette di una grande notorietà meravigliando con la sua abilità quasi prodigiosa il pubblico dei più importanti teatri europei ed arrivando ad essere richiesto e apprezzato presso le corti di Edoardo VII a Londra e dello zar Nicola II a Mosca.

La sua carriera però era iniziata in modo molto più modesto, esibendosi per pochi soldi in varietà di terz' ordine e in sagre paesane, e chi si ricorda di lui dice che era un ometto magro ed emaciato, che pur essendo bravo come ventriloquo, non era molto apprezzato per via di quello che diceva, sciocche e ripetitive banalità in un italiano sgrammaticato e con pesanti influssi dialettali, che era poi la forma in cui parlava abitualmente. 

Anni dopo però il Biccanti subì una trasformazione fisica che lo portò ad ingrassare in forma patologica e ad arrivare a pesare oltre 234 chilogrammi, e a questa malattia corrispose una evoluzione non solo nella qualità della dizione e della pronuncia nelle sue performances ma anche e soprattutto nel contenuto di quello che diceva. 

Infatti, mentre nella sua parlata normale era rimasto lo stesso, quando si esibiva come ventriloquo mostrava una completa padronanza e proprietà di linguaggio e discettava di argomenti e temi elevati, principalmente nell'ambito della filosofia e della teologia, con profonde analisi e riflessioni su cui ebbe a confrontarsi con illustri professori e studiosi di rinomate università e altri istituti accademici in Italia, Francia, Germania, Austria. .

Quando Arminio Biccanti morì ancor giovane a 38 anni nel 1913, fu disposta l'autopsia e si scoprì allora che in realtà le incredibili capacità erano dovute alla presenza, all'interno del suo intestino, di una particolare specie di tenia loquens, un verme solitario che diversi ventriloqui dell'epoca si procuravano da allevatori privi di scrupoli ed addestravano a parlare al loro posto ingannando in questo modo il proprio pubblico.

La singolarità della tenia che viveva nel ventriloquo era che ad un certo punto aveva smesso di interessarsi al cibo e si era dedicata completamente agli studi umanistici, con risultati sorprendenti che però Arminio Biccanti non esitò a spacciare come propri. Purtroppo il verme morì assieme all'impostore, ma ci consola il fatto che comunque ci lasciò -attraverso il suo ospite- una serie di importanti dissertazioni che (opportunamente trascritte e pubblicate) sono tuttora oggetto di studio.  In particolare, non si possono non citare almeno le più importanti, e cioè: "Aspetti epistemologici e gnoseologici nel determinismo nel primo Aristotele" e "Relatività ed oggettività della trascendenza nell' Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie di Kant"




lunedì 26 aprile 2021

Melchiorre Buiosi

Il ladro d'ombre

Il 26 aprile 1961 moriva in carcere Melchiorre Buiosi, il più famoso ladro di ombre della prima metà del XX secolo.

Il Buiosi  divenne famoso perché, a differenza dei comuni ladri di ombre, non utilizzava una forbice da ombre con cui tagliare l'ombra ai bordi delle scarpe della vittima, bensì un sistema unico che finora nessuno è mai riuscito ad emulare.

Il Buiosi inventò infatti una colla particolare con cui spalmava la propria ombra prima di uscire in caccia, e i suoi obiettivi favoriti erano le persone distratte (specialmente turisti) ferme controsole ad osservare panorami, monumenti o altro. Quando trovava la persona giusta gli si poneva rapidamente alle spalle, in modo da sovrapporre la propria ombra a quella dello sventurato che rimaneva incollata e poi, con un colpo secco, strappava l'ombra della vittima e se la portava via attaccata alla propria senza che la vittima avvertisse nient'altro che un leggero brivido momentaneo. 

Melchiorre Buiosi venne arrestato alla stazione di Ferrara nel 1946, mentre si apprestava a salire su un treno diretto a Roma: impacciato e lento nel salire sulla vettura, venne aiutato dal capostazione che però si accorse di qualcosa di anomalo e fece intervenire la Polizia Ferroviaria. Portato nell'Ufficio della stazione, gli agenti constatarono che la lentezza e l'impaccio del viaggiatore erano causate del gran peso delle ombre rubate che portava attaccate alla sua e questa fu la fine del criminale.

Come appurato nel corso del processo, attaccate all'ombra del Buiosi furono trovate 658 ombre rubate nel corso degli anni, le quali però si erano ormai talmente saldate fra loro a causa della colla che non fu possibile staccarle e restituirle ai legittimi proprietari. Condannato a 22 anni, il Buiosi non manifestò mai alcuna traccia di pentimento e morì in cella senza aver mai rivelato a nessuno la formula della sua colla o l'esistenza di un qualche solvente.