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venerdì 1 dicembre 2023

Elvira e Diodata


"...
Del gran pianeta sopra in vivo raggio
Stava una donna dolcemente vaga:
Seduta ell’era, e per lungo viaggio
Parea venir dalla celeste plaga:
Era'l suo sguardo accortamente saggio.
Angioletta fors' è? è forse maga?
Sclamai, che certo sì leggiadro viso
 Opra è d' incanto, o nacque in Paradiso.
 ...”


Nella saletta riservata sul retro della pasticceria, le amiche chiacchieravano senza che il vocio del bancone arrivasse a disturbarle. Erano in cinque, e ogni giovedì si davano appuntamento regolarmente in quella saletta accogliente, con tavoli in legno laccato e sedie Thonet, il perlinato alle pareti con appese sopra stampe d'epoca, una credenza anch'essa di legno laccato e sopra questa una vetrinetta dove erano esposte eleganti teiere in argento di stile inglese, un lampadario stile liberty, che forse faceva poca luce ma gli abat-jour a ridosso dei singoli tavoli provvedevano al resto.

Era un loro rito, trovarsi davanti ad un tè, una tisana, un cappuccino o anche una cioccolata, diete permettendo, a raccontarsi quello che era capitato nella settimana, che cosa avevano fatto, chi avevano visto, che cosa avevano sentito, anche, ma erano tutte storie abbastanza normali, erano semplicemente delle amiche, donne normali che conducevano vite normali: la casa, i figli, i mariti (erano tutte sposate, a parte Antonella, che stava divorziando), il lavoro, la televisione, la salute... cose di scarsa importanza, potrebbe magari pensare qualcuno senza considerare che la vita è fatta di tante piccole, banali cose che si attaccano l'una con l'altra e che è questo concatenarsi di cose piccole quello che crea e giustifica una intera esistenza.

Quel pomeriggio gli argomenti erano stati i mariti, soprattutto quello di Antonella. Poi erano passate a parlare del lavoro, dell'atteggiamento di uno o l'altro dei loro colleghi, e dopo ancora erano arrivate ai gatti, ai vicini che non amano i gatti, e a quant'è difficile trovare dei vicini raccomandabili... Parlavano una sopra l'altra, alzando più o meno la voce, con tono allegro oppure serio, magari anche arrabbiato ma sempre con una partecipazione viva: ognuna poteva e voleva dire la sua riguardo qualsiasi argomento.

Solo Elvira, al solito, rimaneva taciturna. Elvira, pensavano le amiche, era una che ascoltava, e non amava parlare né di sé né di altre cose. Elvira alle altre piaceva. Era una persona che non giudicava, ascoltava ma rispettava qualsiasi cosa le altre dicessero, soprattutto non faceva nessun tipo di pettegolezzo, e non metteva il naso nei fatti delle altre. Ogni tanto, quando una delle amiche la guardava o le domandava qualcosa, in genere scrollava le spalle e sorrideva, dicendo banalità di comodo, tipo “D'altronde... Le cose stanno così”, dando sempre ragione alle altre, oppure semplicemente faceva di sì con la testa, e invitava le altre a continuare i loro discorsi. Non che fosse reticente, questo no, se qualcuna le chiedeva di come andava il figlio a scuola, se al lavoro qualcuno dei colleghi le avesse mai fatto delle avances, se suo marito era uno di quelli che amavano passare le serate al bar con gli amici oppure stava a casa davanti alla televisione, lei rispondeva senza problemi, solo che raccontava le cose come se non la riguardassero, senza mostrare particolare attenzione, e sorrideva. Elvira sorrideva sempre.

Il fatto era che Elvira Colasanti coniugata Quadrelli, di anni 39, con un figlio di 15 anni e una bambina di 7, un lavoro come assistente amministrativa in Provincia, semplicemente non esisteva. Era da tanto tempo ormai che non esisteva. Da quando, stanca dei problemi, delle troppe responsabilità, di una vita che non le dava più alcuna soddisfazione, aveva deciso che lei non era più Elvira e aveva scelto di essere Diodata, la poetessa su cui aveva fatto la tesi di laurea, una poetessa che all'inizio l'aveva fatta sorridere per il suo stile ma che un po' alla volta aveva imparato ad apprezzare, una poetessa la cui lettura aveva continuato a tenere nascosta a tutti e che le era stata di conforto nei momenti anche più dolorosi e più pesanti che la vita le aveva riservato, la poetessa che alla fine aveva preso il suo posto. Perché Diodata non era solo un rifugio, una consolazione: Diodata era la sua stessa vita. Lei era Diodata, e basta.

Elvira non era morta, no, continuava a fare le cose che faceva prima, a badare alla casa e alla famiglia, a fare il suo lavoro in ufficio, a vedere gente e mandare avanti attività varie, ogni cosa come prima, sennonché tutto quello che faceva quella Elvira non la riguardava più, erano cose che venivano fatte in automatico, come respirare, cose che se uno non ci bada apposta non sa nemmeno di fare. Così, mentre Elvira si occupava di tutte le incombenze della vita, con le fatiche, i dolori e le miserie grandi e piccole che la vita comporta, Diodata se ne stava tranquilla e felice nel suo angolo, e le sue parole erano la vera, l'unica realtà che ci fosse:

"...
Il primo fior che rosseggiar qui miri
E' fresca rosa in sul mattin raccolta;
Dolce dolce nel sen par che le spiri
L' auretta alidorata in terra sciolta,
E nelle chiome in tortuosi giri
Ebe vezzosa l'ha sovente accolta,
..”


Sì, questo era Diodata. Era il mondo, l'universo, l'alfa e l'omega, un uroboro che si nutriva delle sue stesse parole e che non aveva bisogno di altro.

E anche adesso, mentre il medico di guardia le stava applicando dei punti, per il poliziotto che le chiedeva se era la prima volta che il marito la picchiava, l'unica risposta era un sorriso appena accennato dietro il labbro tumefatto, uno sguardo perduto chissà dove oltre gli occhi pesti cerchiati di nero:

“...
Que' grati fior, che la mia man coltiva
Solo ragion imparzial destina,
E del vizio per lunga età cattiva
Alma impura non soffro a me vicina.
..."


Perché quello che era successo non la riguardava, a Diodata non era capitato nulla, nulla sarebbe mai capitato a Diodata.



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Note
La contessa Rosa Ignazia Diodata Saluzzo Roero (1774-1840) è stata una letterata, scrittrice e poetessa italiana.  Testi tratti da: Versi di Diodata Saluzzo, Tomo I

Questo racconto si è classificato primo al Premio per le Arti Quia "Marta Redolfi" 2023 e pubblicato nell'antologia "Letterature per il nuovo millennio - Antologia delle esperienze italiane 2023", Quia ed., oltre che sulla rivista "Quia Magazine" di settembre 2023

domenica 22 ottobre 2023

La leggenda della torre e delle margherite (racconto)

 

La Torre e la Margherite

La storia di Lucinda e Lovello è la storia tragica di un amore contrastato, e potrebbe sembrare simile a molte altre vicende, ma ugualmente vale la pena di essere raccontata per una particolarità che la rende veramente unica.

Era Lucinda la giovane e bella moglie di Giovanardo Acquamorta, un rozzo signorotto molto più vecchio della sposa che viveva in un castello poco lontano da Jesi, mentre Lovello era un soldato di ventura che arrivava dal nord e che, stanco di guerre e di armi, aveva deciso di tornare alla propria casa, sul mare, e di fermarsi per mettere su famiglia.

Nel suo viaggio, il reduce arrivò al castello e chiese di poter dormire nella corte e di prendere un po’ d’acqua dal pozzo prima di continuare il suo cammino. Proprio vicino al pozzo, però, incontrò Lucilla e fra i due fu amore a prima vista. Decisero di fuggire assieme quella stessa notte e di raggiungere Senigallia per poi imbarcarsi verso lidi remoti e così fecero, e quando la loro fuga venne scoperta e Giovanardo, colmo d’ira, mandò i suoi uomini a cercarli, loro erano già lontani, prossimi alla meta, e certamente avrebbero fatto in tempo a sfuggire agli inseguitori.

Accadde però che, attraversando le colline attorno a Montignano, da dove già si vedeva il mare vicino, si fermarono all’ombra di una vecchia torre di guardia diroccata per riprendere fiato. Era questo un luogo meraviglioso: attorno alla torre era tutto un incanto di prati con fiori di mille e mille colori e mille profumi, e attorno a loro si sentiva solo la melodia di uccelli che svolazzavano tra viti e alberi carichi di frutti. Caddero allora vittime della malìa del posto e, dimentichi di essere braccati, si fermarono per fare all’amore, e, presi dalla passione, persero la cognizione del tempo.

Questo ritardo fu loro fatale: vennero sorpresi dagli uomini del Giovanardo e uccisi mentre erano ancora abbracciati l’uno all’altra. Il capo degli sgherri, dopo essersi assicurato della loro morte, li abbandonò là, come gli aveva comandato il suo padrone, senza dar loro sepoltura, perché venissero sbranati dai lupi attirati dal loro sangue.

La leggenda vuole però che nella torre abbandonata vivesse un vecchia maga e che questa fece sì che da quello stesso sangue sparso sul prato sbocciassero subito migliaia e migliaia di margherite che ricoprirono completamente i corpi dei due infelici amanti preservandoli così dalla fame degli animali.

Quella torre esiste ancora, e sono molte le coppie di giovani che vanno a giurarsi eterno amore su quello che fu l’incantevole ma tragico scenario della storia d’amore di Lucinda e Lovello. Ma c’è un altro motivo che spinge gli innamorati verso questa valle, e qui la leggenda non c’entra, si tratta piuttosto di una curiosità -o di un mistero, se si preferisce- di carattere scientifico, oggetto di verifiche e studi da botanici di tutto il mondo che però non hanno mai saputo fornire spiegazioni valide a riguardo: tutte le margherite che sbocciano attorno alla torre hanno i petali dispari.

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PS
a scanso di equivoci... questa leggenda è inventata, e non credo esistano specie di margherite che hanno solo petali dispari, anche se sarebbe bello. 😉

lunedì 28 agosto 2023

Il segreto del Golestan (racconto)

Quando si sveglia, i suoi occhi si mettono a fissare il buio. È tutto nero attorno a lui, solo una sottile linea gialla di luce passa da sotto una porta, ma lui non la può vedere dal letto dove sta sdraiato. Lui vede solo buio. Come al solito, ma lui non sa che è come al solito, la sua prima sensazione è di smarrimento, è disorientato, non solo non capisce dove è, ma lo stesso concetto di «dove» gli è estraneo. E quindi dopo il disorientamento arriva la paura, un sentimento forte, pressante, totalizzante che come una lenta scossa si propaga per tutto il suo corpo, dalla testa al petto, alle braccia, allo stomaco e giù giù fino ai piedi, e da lì di nuovo verso la testa, come la risacca di un’onda, fino a coprirlo tutto sotto una coperta gelida che lo schiaccia e lo fa respirare a fatica.

Senza sapere perché, in un gesto tanto disperato quanto inconscio, allunga la mano destra sotto il cuscino e quando le sue dita sentono il libro, lo stringono forte e la mano poi porta il libro sopra il petto, e con il libro la paura se ne va.

Adesso è tranquillo, e anche se non sa dove è, chi è e vede solo buio, il contatto con il libro lo rassicura, e rimane così per un tempo indefinibile, ore, forse minuti, fino a quando qualcuno bussa alla porta, senza attendere nessuna risposta entra nella stanza e va alla finestra a tirare su le tapparelle prima di girarsi verso l’uomo disteso sul letto e di dirgli sorridendo, parlando piano, come si parla ad un bambino:   «Buongiorno, Martino. Siamo pronti per andare a lavarci?»

L’uomo che per un attimo aveva chiuso gli occhi feriti dalla luce del giorno, li riapre e gira la testa per guardare la donna vestita di bianco che gli sorride. Sorride anche lui, senza la coscienza di stare sorridendo, e continua a tenersi stretto il libro sul petto. E sempre senza alcuna coscienza, lascia che la sconosciuta lo aiutiad alzarsi e dopo essersi sistemato il libro in un tascone del grembiule verde chiaro che indossa, si fa guidare, tenuto a braccetto e camminando a passi lenti, fuori della stanza, nel corridoio, verso un locale dove entrando per prima cosa vede se stesso in uno specchio. L’immagine di un vecchio, magro, con le occhiaie profonde e una ragnatela di rughe sul volto. Ma anche quello per lui è uno sconosciuto. Lui è uno di quelli che non si riconoscono allo specchio.



L’aria nel giardino è tiepida, soffia una brezza leggera che non disturba.

«E quello lì, quello che se ne sta seduto da solo sulla panchina in fondo, sotto il muro, quello chi è?2

«Ah, quello, quello è il Ramboldi. Martino Ramboldi.» risponde la dottoressa che sta facendo da guida al nuovo inserviente assunto nella clinica «Sta da noi ormai da diversi anni, 3, 4, forse anche di più. Quando era fuori, era un bravo professionista, dicono, non mi ricordo se fosse un ingegnere, un architetto, qualcosa del genere. Poi per l’età ha smesso di lavorare, gli è morta la moglie e lui ha avuto un crollo. Ecco, la cosa particolare, forse, è che nel suo caso l’evoluzione della demenza è stata più rapida, come tempi, di quello che ci si può aspettare in casi anche conclamati di Alzheimer come il suo. Per il resto, una storia come tante, ma tieni conto, te ne accorgerai presto, che qui le storie dei nostri ospiti sono tutte uguali».

«Ma perché se ne sta da solo e non gioca come gli altri?»

«Oh, beh, lui ci gioca, si, con gli altri, solo che non sempre ne ha voglia, o si stanca, non sappiamo, e allora va a sedersi là, quello è il suo posto favorito, e poi, quando ne ha voglia, torna a giocare con gli altri. Ma può stare là anche per un bel pezzo, alle volte tiene anche gli occhi chiusi, si potrebbe dire che dorme, ma non è così, non ha nessuna crisi o sintomo di letargia».

«Ma è uno di quelli tranquilli oppure può dare dei problemi?»

«Direi uno di quelli tranquilli, proprio. Ha poche crisi, abitualmente a lunga distanza l’una dall’altra, ma niente di che, non è uno di quelli che aggrediscono le persone o rompono le cose. Si calma da solo. Per quanto riguarda Martino, però, c’è una cosa che ti devo raccomandare. Martino porta sempre con sé, dovunque vada, nel suo grembiule oppure sotto il cuscino la notte quando dorme, un piccolo libro che si è portato da casa e che non lascia mai, ma proprio mai. Ecco, non sognarti di prenderglielo, neanche per un attimo, neanche di toccarlo: Martino ha per quell’oggetto un attaccamento ossessivo, e bisogna lasciarlo fare. La nostra psicologa dice che è per lui una forma di attaccamento alla realtà, una specie di ancora emotiva che rappresenta la sua stessa vita, o qualcosa del genere, se vuoi parla direttamente con la psicologa che ti spiega bene la cosa, anche se non so quanto ne valga la pena. La cosa importante è che quel libro è di Martino e basta, ed è meglio che se lo porti sempre dietro e che lo tocchi solo lui. In caso contrario sì, ci possono essere dei problemi, perché abbiamo visto che allora può diventare aggressivo e violento, veramente violento».

«Capito. Ma che libro è?»

«Boh.» la dottoressa scrolla le spalle con indifferenza «Non me ne ricordo... mi pare fosse un libro di poesie, poesie arabe credo, ma non so... è la sola cosa che ha voluto portarsi qua, quando è arrivato i figli ci hanno detto che aveva fatto il diavolo a quattro al momento di lasciare casa e che si era calmato solo dopo aver preso quel libro dalla sua stanza. La sua demenza era già in stadio avanzato, certo non sapeva più né leggere né scrivere, ma quell’oggetto era importante per lui, così i figli glielo hanno fatto tenere e poi lui s’è lasciato portare qua tranquillamente. E la stessa cosa funziona anche qui in clinica. Perciò, anche se sei curioso, non toccargli quel libro, mai. Se sei curioso e vuoi saperne di più, chiedi alla psicologa che ti dirà di sicuro titolo, autore e tutto quello che vuoi sapere su quel libro».



Martino apre gli occhi e rialza la testa. Come se non fossero parte del suo mondo, guarda indifferente tutti quegli uomini e donne che si tengono per mano e fanno il girotondo guidati da altri uomini e altre donne vestite di bianco. Con precauzione, anche se non sa né cosa sia ‘precauzione’ nè perché si comporta così, si gira sulla panchina in modo da dare la schiena agli altri e lentamente tira fuori dal tascone del grembiule il suo libro.

Lo guarda come se non l’avesse mai visto prima, ed in effetti per lui è proprio così. È un libro piccolo ma corposo, la copertina di colore grigio, con sopra dei segni rossi su cui qualcun altro avrebbe potuto leggere ‘Antologia del Golestan’. Senza curarsi troppo di quelle che per lui sono forme senza significato, sfoglia le pagine lentamente, una dopo l’altra, finché non arriva a trovare, stretto nel mezzo del volume, un minuscolo fiore appassito, di colore azzurro chiaro. Lo guarda e lo ammira. Quello sì che lo conosce, quello sì che sa cos’è. Certo, non lo sa la sua mente, sono piuttosto il suo cuore, il suo animo, forse il suo stesso spirito a riconoscerlo.

Era successo tanti anni prima, durante una di quelle lunghe passeggiate che lo portavano per quelle stesse strade che aveva già percorso più e più volte, tenendo per mano la donna amata, e ogni volta come se fosse stata la prima, perché lei col suo sorriso e le sue allegre risate illuminava quelle vie, quelle piazze, e sempre lui vedeva quella bellezza come se non l’avesse mai vista prima, come se fosse lei ogni volta a fare rinascere la bellezza stessa.

Poi lei se ne era andata. Lui non aveva avuto la forza, la decisione di andarsene assieme a lei, anche se ci pensava ogni volta che si affacciava alla finestra della sua camera e guardava in basso oppure quando attraversando un ponte si fermava a osservare l’acqua scura che scorreva sotto di lui.

Quel pomeriggio era arrivato nel Giardino delle Rose, un luogo amico pieno di ricordi di lei. Camminando fra i cespugli colorati e profumati, riconosceva quasi le orme di loro due abbracciati, e come gli capitava in questi momenti, i ricordi salivano e gli facevano il regalo di un lieve sorriso. Fu allora che passando lo sguardo sull’erba che costeggiava i sentieri del Roseto, si accorse di un piccolo, quasi minuscolo, fiore di colore celeste che stava quasi per calpestare. Non sapeva che fiore fosse, forse un myosotis, forse qualcos’altro, lui non conosceva i nomi dei fiori, a lui i fiori piacevano e li apprezzava, ma non aveva mai imparato a riconoscerli. Era lei che gli diceva i nomi e gli spiegava questo è quello, e lui faceva di sì con la testa e dopo qualche minuto aveva già dimenticato tutto.

Era rimasto colpito perché in quel fiore aveva riconosciuto lo stesso colore degli occhi di lei. Quel colore chiaro, come il cielo all’orizzonte, in cui si era perso un numero infinito di volte. Martino era un uomo che non credeva alle coincidenze e così, dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno a guardarlo, si era chinato e senza esitazione aveva raccolto il fiore facendo piano per non rovinarlo e dopo se lo era messo in tasca.

Più tardi, nello studio a casa sua, l’aveva tirato fuori e l’aveva posato sulla scrivania ed era rimasto per un bel po’ di tempo a rimirarlo e non riusciva a staccarci gli occhi di dosso fin quando, ad un certo punto, come colto a una improvvisa ispirazione, si alzò e si diresse verso uno degli scaffali della libreria. Qui, come ricordava bene, tra ‘Il Profeta’ di Gibran e una raccolta di haiku giapponesi, c’era l’ ‘Antologia del Golestan’, di Saadi. Edizione economica, tascabile, stampata in caratteri piccoli, un libercolo di scarsa importanza se paragonato a tanti altri volumi che teneva nella sua libreria, ma aveva pensato che quello fosse il libro giusto, dal momento che il termine Golestan, in persiano, significa appunto ‘Il Roseto’. Ne aveva scorso rapidamente le pagine, senza badare al contenuto, fino a fermarsi, senza un motivo preciso, in un punto dove, dopo un ultimo sguardo, aveva sistemato il fiorellino con estrema cautela e poi aveva rinchiuso il libro, che non aveva però rimesso al suo posto, ma era andato a posare sul suo comodino in camera da letto.

Da quel giorno in poi Martino, ogni sera, prima di addormentarsi (o, almeno, prima di provare ad addormentarsi), apriva il libro e passava un po’ di tempo a contemplare il fiore. Pian piano lo vide appassire, rinsecchirsi, proprio come stava appassendo e rinsecchendo lui, ma sempre manteneva il suo colore che, al calare della notte, era sempre la cosa più bella nelle giornate tristi, monotone e solitarie che conduceva. Perché è vero che un fiore rinchiuso non ha più alcun profumo, è vero che volare non è parlare del cielo, ma è anche vero che quando la luce se n’è andata, quando non ci si attende più nulla dalla vita, nemmeno la morte, allora ci accontentiamo anche di quei timidi, pallidi riflessi che la vita si degna di continuare a offrirci e così, senza nessuna speranza e senza nessun vero domani, andiamo avanti attraverso il nostro dolore.

Alla fine comunque il dolore se ne era andato, era stato sostituito dall’oblio che, se fosse stato in grado di farlo, Martino avrebbe riconosciuto più come un dono che come una condanna.


E adesso Martino se ne sta nel giardino della clinica dove l’hanno portato, se ne sta seduto in disparte, nel suo posto sulla panchina sotto il muro, a guardare un piccolo fiore secco e a passarci delicatemente sopra, per sfiorarlo appena appena, le sue lunghe e scarne dita di vecchio. E senza coscienza, senza sapere perché, nel vuoto della demenza dove nulla ha più importanza, dove nulla realmente esiste, dai suoi occhi sgorgano piccole, umide, salate gocce di una antica felicità che non intende essere dimenticata.


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Racconto primo classificato al Concorso nazionale per racconti brevi dedicato alla scrittrice Michela Turra "Amore e dintorni" 2022

mercoledì 16 agosto 2023

Il giacobino (racconto)

I popoli non giudicano allo stesso modo dei Tribunali: non emettono sentenze, lanciano fulmini; e questa giustizia vale quanto quella dei Tribunali.
Maximilien Robespierr
e


Era una bella automobile, pareva appena uscita dal concessionario, con la luce dei lampioni che mandava dalla carrozzeria immacolata riflessi lucidi, quasi splendenti. Era una vettura grande, imponente, incuteva rispetto e anche un po' di timore, con le ruote esagerate pronte a scalare montagne e attraversare fiumi ma decisamente fuori posto nelle strade cittadine e il muso largo e imponente, aggressivo, che con i fanali quadrati e la maschera del radiatore che sporgeva in fuori poteva ricordare il volto di un Dio pagano, malvagio e crudele. Nell'insieme, esprimeva un'idea mista di potere, arroganza, ricchezza e disprezzo per gli altri, idea peraltro confermata dal modo incivile in cui aveva per così dire parcheggiato il suo proprietario.

L'avevano sistemata appena fuori del portico, proprio di traverso sopra il marciapiede, e bloccava completamente i pedoni che, per proseguire nel loro percorso, erano costretti a girarci attorno, passando in mezzo alla strada. E anche se a quell'ora, nel dopo cena, di pedoni non ce n'erano poi tanti in giro, la faccenda non cambiava: era il classico comportamento di chi ha poco tempo da perdere e soprattutto nessuna voglia di cercare un parcheggio come la gente normale e quindi lascia la macchina dove più gli fa comodo, era il modo di fare di una persona per la quale esiste solo se stessa e gli altri passano in secondo piano, una persona che ha tutti i diritti e non deve rispondere a nessuno. E poi in quella strada, a quell'ora, in una serata di primo autunno freddina e umida, i vigili non passano più, non c'era pericolo che nessuno chiamasse il carro attrezzi, senza considerare che un'auto del genere apparteneva certamente a un uomo di potere, e gli uomini di potere sono quelli che hanno sempre qualche santo in paradiso e le multe se le fanno togliere -quando gliele danno.

Così la pensava, e probabilmente ci azzeccava, l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre. Stava tranquillamente facendosi una passeggiata tornando a casa dopo una serata passata con gli amici al bar Da Ottavio, una ex Casa del Popolo che aveva cambiato nome ma non clientela, e si era visto il proprio cammino bloccato da quella esagerazione a quattro ruote.

Una persona normale avrebbe girato attorno all’auto, al massimo ci avrebbe brontolato un po’ sopra e mandato all’inferno il proprietario, ma l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre no. Lui si era fermato e ora se ne stava a guardare il macchinone un po’ meditabondo, con le mani incrociate dietro la schiena, con un misto di sentimenti contrastanti, come gli capitava ogni volta che si trovava di fronte a parcheggi -e automobili- del genere. Da una parte, c'era una rabbia profonda nei confronti di quelli che se ne fregano completamente dei diritti altrui, quelli che pensano che l'universo ruoti attorno a loro e che tutto sia loro dovuto, un vero e proprio odio verso l'arroganza superba del ricco e del potente che si esprimeva in comportamenti di quel genere, comportamenti incivili a dire poco. Dall'altra, c’era un sentimento quasi opposto, un misto di eccitazione e piacere, che nasceva dall’avere trovato ancora una volta l'occasione di esercitare un po' di giustizia. Non vendetta invidiosa, non cattiveria gratuita: giustizia.

Il terrore non è altro che giustizia pronta, severa, inflessibile. È quindi una emanazione di virtù.
Maximilien Robespierre

L'uomo si frugò nella tasca interna del giaccone per vedere se si fosse ricordato di portare con sé qualche biglietto di quelli che aveva stampato tempo addietro e che ormai avrebbe dovuto ristampare perché non gliene erano rimasti poi tanti. I biglietti c'erano. Bene, questo gli avrebbe fatto risparmiare tempo. Si guardò attorno. Non c’era nessuno. Sapeva che una decina di metri più avanti, dietro l’angolo, si trovava un ristorante, con tutta probabilità la meta del proprietario dell’automobile, ma la cosa non lo preoccupava: a quell’ora erano di sicuro ancora a tavola, anzi se tendeva l’orecchio riusciva a sentire il vocio dei clienti, e se anche qualcuno fosse uscito per fumarsi una sigaretta, si sarebbe fermato fuori della porta del locale. Fu quindi con tranquillità che, dopo essersi guardato di nuovo attorno e anche dietro, per vedere che non ci fosse nessuno in giro, si avvicinò all’automobile dal lato che gli stava impedendo il cammino, il lato del passeggero e, quasi con noncuranza, si posizionò sul fianco della vettura e si appoggiò, sempre con fare indifferente, sulla portiera. Poi ruotando su se stesso, appoggiò la schiena sullo specchietto e spinse, continuando a far forza lentamente ma con decisione, finché non sentì un rumore che conosceva bene, quello di un supporto di specchietto che cede. Sempre con calma assoluta, e sempre guardandosi attorno, si girò e si spostò indietro per contemplare la sua opera. Niente male: la rottura dell'attacco era stata netta e lo specchietto ora penzolava appeso ai fili elettrici che lo comandavano dall'interno. Bene. L'uomo tirò fuori da sotto il giaccone uno dei suoi biglietti per sistemarlo per bene tra il vetro del parabrezza e il tergicristallo. Proprio come una multa, pensò l'uomo posizionando il cartellino, necessario per far capire a quell’animale che doveva essere il proprietario che non si trattava di vandalismo, ma di giustizia, e infatti sopra c’era scritto, in grandi caratteri maiuscoli: “IMPARA A PARCHEGGIARE MEGLIO”.

Giustizia quindi era fatta, però l’uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre non ne era convinto del tutto. Si riparò un po’ nascosto sotto l’ombra del portico e incominciò a riflettere. Uhm. Un parcheggio come quello era proprio una cosa ignobile, vergognosa, e il suo autore doveva essere un individuo miserabile e spregevole, un incivile indegno di vivere in un consesso umano. La logica conseguenza di tale ragionamento era che la pena doveva essere proporzionata all' offesa, quindi ci voleva un trattamento esemplare.

Mise allora una mano sotto il cappotto e, seguendo la catenina con con cui lo teneva assicurato alla cintura, arrivò ad un portachiavi che teneva sempre in tasca e a cui era attaccato un piccolo coltellino a serramanico di color verde. Estratto il coltellino, con l’unghia ne fece uscire la lama, una piccola lama di neanche 3 cm, ma tenuta sempre bene affilata.

Di lasciare semplicemente qualche graffio sulla carrozzeria non se ne parlava, di sicuro avrebbe avuto un certo effetto, ma era roba da teppistelli, ci voleva qualcosa di più, una scritta oppure un disegno per ribadire con chiarezza all'incivile il concetto. Che cosa avrebbe potuto incidere allora? Beh, poteva essere una scritta sarcastica del tipo “GRAN BEL PARCHEGGIO”, o magari anche un semplice e sempre efficace “PARCHEGGIO DI M**DA” sarebbe bastato, però col biglietto la motivazione era già chiara a sufficienza, sarebbe stata una cosa in più, quello che serviva ora era un qualcosa che riguardasse quell’animale del proprietario. Naturalmente, poteva essere sufficiente una sola parola, come “S****ZO” oppure “C*****NE”, lo scopo sarebbe stato comunque raggiunto, ma il proprietario di quella massa di ferro e superbia meritava qualcosa di più. Vediamo. “GLI INCIVILI COME TE DEVONO PRENDERE L’AUTOBUS” era troppo lungo, è vero che non c'era nessuno in giro, ma non si sa mai, poteva malauguratamente capitare di dover lasciare il mssaggio a metà. Mmm… Forse qualcosa che avrebbe fatto vergognare sia il proprietario che quelli che stavano in macchina con lui… Ci rimuginò un po’ sopra e finalmente gli venne in mente l’idea giusta: un bel “TRASPORTO LETAME” da incidere a fondo sulla portiera dalla parte del passeggero. Guardò l’automobile e provò ad immaginarsi la scritta sulla portiera e sopra, dietro il finestrino, il profilo di una bella ed elegante signora. Sì, poteva andare, proprio un bell'effetto.

Sempre guardingo, si avvicinò di nuovo alla vettura e tenendosi un po' curvo per non farsi vedere incominciò col coltellino a incidere la lettera 'T' sulla portiera lucente, e la vernice veniva via a piccoli riccioli argentati.

Punire gli oppressori dell'umanità è clemenza, perdonarli è crudeltà.
Maximilien Robespierre

Ripreso il cammino verso casa, nonostante fosse pervaso da una certa soddisfazione per il lavoro svolto, l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre prese a ripensare a ciò che aveva fatto e, come gli era già capitato in altre occasioni, fu preso da una specie di dubbio e si domandò se non avesse esagerato, forse bastava solo lo specchietto, se non avesse calcato troppo la mano per dare sfogo a uno sterile sentimento di rivalsa o di vendetta, magari con un fondo di inconfessata e inconfessabile invidia.

Però, più ci pensava, più non poteva far altro che darsi ragione. Quelli che acquistano un’automobile di quel tipo, era convinto, lo fanno solo per esibirla e di conseguenza esibire, attraverso l’oggetto, la propria condizione economica e il proprio status. Se così non fosse, auto del genere, completamente inadeguate alla guida in città, fuori luogo vuoi per la dimensione che per il consumo, verrebbero utilizzate solo in campagna o in montagna, per guidare lungo prati e strade impervie: lo scopo essenziale, primario, di coloro che le acquistano e le guidano in città è appunto quello di dimostrare potere e superiorità nei confronti di tutti quelli che non si possono permettere certi lussi. Ma dal momento che dalla superiorità al dominio il passo è breve, quando al semplice possesso di quel tipo di veicoli si aggiunge un modo di parcheggiare completamente incurante dei diritti e delle esigenze degli altri, in quel caso la questione si configurava come un libero arbitrio, un abuso, in definitiva una sopraffazione, e denunciava apertamente il suo proprietario come una persona indegna del consesso civile, una persona che al diritto aveva sostituito la legge del più forte e che per questo doveva essere condannato. E con queste argomentazioni, logiche e intaccabili almeno nel suo pensiero, l'uomo finiva ogni volta per giustificarsi ed assolversi: in fin dei conti lui non faceva altro che portare giustizia dove nessun altro la portava.

La virtù è l'essenza della Repubblica. Il terrore senza la virtù è funesto.
Maximilien Robespierre

Immerso nelle sue riflessioni, l'uomo era ormai arrivato nella via dove abitava e, come al solito si fermò al fianco della sua, di auto, parcheggiata sul lato della strada, perché la sua abitazione non aveva il garage. “Questo si chiama parcheggiare, parcheggiare bene.” - pensò guardando come le gomme erano tutte ben dentro le strisce bianche, proprio nel centro dello spazio delimitato in modo tale da permettere movimenti agevoli anche alle altre auto. Gli specchietti esterni erano stati ben ripiegati, così da evitare ulteriormente ogni possibile intralcio ad altri automobilisti, ciclisti o ai pedoni sul marciapiede. Questa era quella che l'uomo chiamava virtù, e cioè fare del proprio meglio, anche in questioni banali come parcheggiare l'auto per favorire, aiutare, soprattutto non causare in alcun modo disturbo alle altre persone. Era una questione di civiltà e di rispetto per gli altri, ed era fermamente convinto che, se tutti si fossero comportati come lui, la vita sarebbe stata più semplice e migliore, magari di poco, ma migliore. 

Alle volte, certo, poteva capitare che questo suo comportamento, queste sue attenzioni quasi maniacali venissero consierate inutili: la moglie alzava spesso le sopracciglia e faceva un sorrisetto ironico quando lo vedeva perdere tempo a fare manovre dopo manovre per posizionare l'auto alla perfezione, con una pignoleria esasperata. E anche lui ben sapeva che un po' in fuori o un po' in dentro non cambiava nulla e le cose andavano avanti lo stesso, ma tant'era: lui le cose doveva farle per bene, era una questione di virtù, anzi della Virtù intesa come base per la convivenza sociale. Comportarsi con virtù dimostrava che la virtù stessa era possibile, e che chi non la praticava era colpevole, e doveva essere punito. Ancora più rinfrancato e convinto della giustizia delle proprie azioni, l'uomo tirò fuori le chiavi di casa ed entrò.

Un vero rivoluzionario dovrebbe essere pronto a perire nel processo.
Maximilien Robespierre

Erano passate le 4 di sera, l'inverno si stava già mangiando la luce del giorno, i lampioni si erano accesi e stava già diventando buio. L'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre era imbottigliato nel traffico del venerdì sera. Era nervoso perché l'ufficio dove si doveva recare chiudeva alle 17, e lui doveva, anzi: voleva, era per lui una questione di principio, consegnare i documenti in tempo.

Aveva fatto bene i conti per l'uscita, solo quel traffico l'aveva rallentato di molto, e ora rischiava di non farcela. Tamburellò nervosamente le dita sul volante. Ecco, finalmente qualcosa si era mosso e le auto avevano ripreso a scorrere. Arrivò in piazza Garibaldi che mancavano pochi minuti alla chiusura dell'ufficio. Fece due volte il giro del piazzale, ma non gli riuscì di trovare un posto libero per parcheggiare. Dannazione. A dir la verità, se lui non fosse stato lui, avrebbe potuto parcheggiare a pochi metri di distanza dal palazzo a cui era diretto, praticamente dall’altra parte della strada, sistemando l’auto appena fuori delle postazioni segnate però occupando in questo modo parte delle strisce di attraversamento pedonale, ma era una cosa che andava decisamente contro i propri principi. Sennonché, dopo un terzo, inutile giro per trovare un parcheggio libero, gli fu chiaro che se voleva consegnare per tempo i documenti, avrebbe dovuto commettere una trasgressione di quelle che aveva sempre condannato negli altri. Guardò l'orologio, mancavano ormai pochi minuti alle 17 e con una decisione tanto improvvisa quanto sofferta, fece un ulteriore giro della piazza e si andò a fermare sopra le strisce pedonali. Disse a se stesso che ci sarebbe stato solo per pochi minuti, che in realtà non intralciava nessuno e che si poteva comunque attraversare la strada senza problemi, che ormai era buio e gente in giro a piedi non ce n'era, che nessuno se ne sarebbe nemmeno accorto, che anche il rispettare le scadenze era una questione importante… ma nonostante questi suoi pensieri avessero tutti una certa logica, quando smontò dalla sua auto e si avviò verso l'ufficio aveva una specie di peso nell'anima, la coscienza di avere abbandonato, sia pure per poco, la strada della virtù.

Era trascorso neanche un quarto d’ora e l'uomo che sul comodino in camera da letto teneva gli Scritti di Robespierre aveva fatto in tempo a consegnare i documenti e adesso soddisfatto se ne stava facendo ritorno alla macchina quando, prima di attraversare la strada, si fermò e la guardò da lontano. Proprio un brutto parcheggio, di quelli che no, non dovevano essere fatti. Riconobbe nel suo comportamento una trasgressione, la colpa del mancato rispetto dei diritti altrui. Che importava se non c'era nessuno in giro? Che importava se c'era stata una oggettiva necessità? Una necessità non giustifica l'abuso, e anche se l'abuso non aveva danneggiato nessuno, l'abuso c'era stato. E doveva essere punito. Sentì un groppo alla gola, ma fu solo un attimo e la sua decisione fu presa. Si rese conto che quello che stava per fare era una cosa assurda, folle e probabilmente perfino ridicola, ma non poteva mancare ai suoi principi una volta ancora, non poteva tralasciare di punire e punirsi per ciò che aveva fatto. Con una piccola lacrima che scivolò giù per la fredda guancia, lentamente staccò il coltellino dal portachiavi alla cintura e si avviò per l'opera di giustizia. Robespierre l'avrebbe capito, Robespierre avrebbe fatto lo stesso.

Avvicinandosi alla macchina dal lato del marciapiede, si accorse però che qualcuno, con un chiodo o un altro aggeggio appuntito, gli aveva già rigato la macchina incidendoci sopra “PARCHEGGIO DI M**DA. Prima rimase a bocca aperta, stupito, ma poi non riuscì a trattenere un sorriso: l'idea si stava facendo strada.

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Questo racconto ha conseguito il terzo posto ex aequo con merito di pubblicazione al Premio Letterario Seven 2023
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E tanto per mettere le cose in chiaro: questo racconto è stato scritto nel 2021, 2 anni prima di quello che è successo a Roma con Free Park... 






martedì 1 agosto 2023

Guardaroba d'estate (racconto)

 La libreria, a vederla, pareva più un tempio che un normale negozio: gli infissi erano di legno massiccio, scuro e lucido, le vetrate leggermente abbrunate mettevano in mostra solo pochi, eletti, volumi sopra raffinati espositori sempre in legno e a fianco dell’entrata due colonne in marmo reggevano una lastra, anch’essa in marmo, su cui era inciso a caratteri dorati: “Libreria Grifoni dal 1824”.

Il taxi accostò, ne scese una signora molto elegante e molto ingioiellata che guardò per un attimo l’imponente insegna, poi rapidamente passò due banconote all’autista dicendo: «Tenga pure il resto.», e senza un saluto si girò ed entrò nella libreria. L’autista guardò le due banconote da 10 euro che gli aveva dato la signora e dentro di sé fece la semplice considerazione “Costo corsa euro 19 e 20 centesimi, pagato euro 20, mancia 80 centesimi. Una principessa.” Poi, sospirando e pensando che è proprio vero che le tasche dei vestiti dei ricchi le fanno a chiocciola, dove i soldi entrano e non vengono più fuori, guardò nello specchietto retrovisore e si reinserì nel traffico della città, traffico intenso come se tutti dovessero andare a concludere qualcosa prima dell’arrivo ormai vicino dell’estate.

All’interno, la libreria era silenziosa. Due visitatori, parlottando fra di loro a voce bassissima, quasi come fossero in chiesa, si aggiravano curiosi tra gli scaffali e i tavoli su cui erano esposte le novità. Il silenzio venne rotto dal rumore dei tacchi alti della signora e il cavalier Grifoni, ultimo discendente della famiglia, in un impeccabile doppio petto scuro, si avvicinò premuroso e chinò il capo con deferenza: la signora era una delle migliori clienti, e poi era moglie del commendatore M., la deferenza era il minimo.

» Signora M.!», salutò ostentando un sorriso più da bottegaio che reale «Bentornata, è sempre un piacere vederla!»

«Buongiorno Grifoni. Volevo parlare con Marisa.»

«Marisa è al momento impegnata con un altro cliente. Se posso esserle utile io…»

«No, Grifoni, grazie. Volevo proprio Marisa.»

«Bene, signora. Vedrò cosa posso fare.», e abbassando leggermente il capo come per scusarsi si allontanò per cercare Marisa, la commessa più stimata della libreria, la preferita da tutte le signore che frequentavano il posto, quella che non era solamente la più preparata, ma anche una che dava consigli ma al tempo stesso una confidente e, per qualcuna, addirittura un’amica.

La trovò nella saletta verde, quella dei classici latini e greci, assieme ad un assiduo frequentatore del posto, il professor P., mentre gli illustrava l’ultima edizione critica delle “Enneadi” di Plotino, e non poté fare a meno di pensare che quello era uno spreco: Marisa era eccezionale con le donne, ma era sprecata con gli uomini, a quelli poteva pensarci lui o qualche altro commesso, erano meno esigenti, avevano le idee più chiare e andavano subito al sodo.

Fece un cenno discreto alla commessa, e questa si scusò con il cliente e andò dal titolare che sottovoce le disse: «C’è la signora M. Vuole te.»

Marisa annuì, tornò dal cliente e dopo avergli sussurrato qualcosa se ne andò, mentre era Grifoni ad avvicinarsi con un sorriso: «Caro professore! Bentornato, è sempre un piacere vederla! Allora, Marisa mi diceva che è interessato all’ultima edizione delle “Enneadi”, con la traduzione del Roccoli...»

 Marisa raggiunse la signora, che sfogliava le ultime novità sopra gli espositori con aria dubbiosa se non proprio contrariata.

«Benvenuta, signora. Mi voleva?»

La signora si girò, scrutò la commessa da capo a piedi e sembrò approvare il suo tailleur nero, alla moda ma al tempo stesso sobrio e discreto, con la camicia bianca e le scarpe nere senza tacco.

«Oh, finalmente.  Avevo proprio bisogno di te, cara.»

«Bene, signora. Sono a sua disposizione. Preferisce stare qui o andiamo nel salottino?»

«Forse nel salottino è meglio. Sai, cara, è una questione importante, ed è meglio che ne parliamo tranquille.»

Marisa sorrise e fece strada alla cliente verso una piccola stanza, in un angolo tranquillo della grande libreria, dove in mezzo agli scaffali dei libri si trovavano un piccolo tavolino rosso, laccato, e due poltroncine con sedile di velluto, anche questo di colore rosso, per ricevere gli ospiti più importanti, quelli che dovevano essere trattati col massimo rispetto e a cui prestare la massima attenzione, quelli da accontentare ad ogni costo perché un loro giudizio negativo poteva risultare deleterio per la libreria.

Marisa fece accomodare la signora M. su una delle poltroncine e prima di sedersi a sua volta chiese: «La signora desidera un caffè, un tè, oppure una bibita rinfrescante, visto che oggi è già una giornata caldina?»

L’altra scosse la testa: «No, cara, grazie. Meglio di no. Forse dopo».

«Come desidera, se cambia idea me lo dica.» concluse Marisa e sedette accanto alla signora. Questa per un attimo osservò la commessa: si era seduta ma aveva mantenuto la schiena dritta e non l’aveva appoggiata alla spalliera, e se ne stava con le mani posate sulle ginocchia, attenta e in attesa. La signora ne fu compiaciuta, Marisa non era solo la commessa di libreria più capace e fidata che conoscesse, in grado di trovare sempre il meglio per lei, era anche una che sapeva stare al suo posto. E, come consigliera, non sbagliava mai.

«Vedi, cara, il fatto è che siamo stati invitati, mio marito ed io, a passare un fine settimana in Sardegna, dal conte D. e ci saranno diversi altri ospiti, alcuni importanti, come J.K., l’attrice, la ministra R., ma soprattutto, ci sarà...»  E qui la signora M. fece una breve pausa, chinandosi verso Marisa prima di pronunciare, abbassando la voce, un nome che fece sobbalzare la commessa, che pure non era certo una facile da impressionare.

La signora si accomodò di nuovo sulla poltroncina: «Capisci, cara, che questa non è una cosa da prendere alla leggera, no? Io devo fare una figura non bella ma, semplicemente, splendida. Ecco perché sono qui, cara, sono nelle tue mani».

Marisa esitò e si morse leggermente le labbra: «Ho capito, ma devo saperne di più, signora, devo sapere come si svolgerà questo soggiorno, se c’è un tema richiesto, se ci sono occasioni particolari.».

La signora scrollò le spalle: «Ma, niente di che... Faremo le solite cose, credo: attività varie, spiaggia, uscita in barca, serate danzanti... Ecco, una sola cosa particolare ci sarà, una cena in onore del console francese in Austria che, a quanto mi dicono, è un amico personale del conte. Non mi pare ci sia nient’altro di speciale in programma, sai, cara, il conte non è che brilli per la sua fantasia».

La commessa sembrò pensarci un po’ sopra e poi estrasse dalla tasca del tailleur un piccolo taccuino rilegato in pelle con una piccola matita dorata, e con tono professionale, come se fino ad allora si fosse trattato di una chiacchierata tra amiche, disse: «Signora, per poterle rendere il servizio che merita, devo saperne di più».

L’altra annui, contenta: sapeva che Marisa stava prendendo il comando, e sapeva che avrebbe trovato la soluzione giusta.

«Vede,» stava proseguendo la commessa, «in questi casi è facile ricorrere a scrittori di moda, certo non emergenti, ma già famosi e segnalati in qualche premio, e risolvere così la situazione, ma non è il massimo, tutto sommato si tratta di scelte banali e noi non vogliamo questo, giusto? E non vogliamo nemmeno che qualcun altro, o qualcun’altra, arrivi coi nostri stessi libri, giusto?»

La signora fece di sì con la testa, pronta a lasciarsi guidare.

«Lei, signora, per caso aveva già in mente qualcuno o qualcosa?»

«No, cara, no. Come ti ho già detto, sono nelle tue mani».

«Bene. Allora andiamo con ordine. Partiamo dalla colazione del mattino. Si tratta di una colazione formale o informale? È importante che io lo sappia».

«Beh... informale, principalmente. Naturalmente ci sono i camerieri, ma si limitano a preparare le bevande, affettare il pane, cose del genere. Ci si serve a buffet, sopra tutto, e non c’è nessuna indicazione particolare per l’abito».

Marisa prese nota sul suo taccuino: «Informale, dunque. Bene, questo è piuttosto facile, vediamo...» Fissò il soffitto e si morse un paio di volte le labbra prima di continuare «Ecco, io la vedrei bene con qualcosa di leggero, disinvolto, una raccolta di racconti, una lettura non impegnativa ma assolutamente non banale...  Ecco, potrebbe essere “È ricca, la sposo e l’ammazzo”, di Jack Ritchie, oppure... No, aspetti un attimo, mi è venuto in mente quello che può essere per lei l’accessorio perfetto per una colazione informale. Non si tratta esattamente di un libro di racconti, sono più che altro storielle brevi, considerazioni e facezie di vario genere, ma comunque in grado di attirare l’attenzione e di far un’ottima figura: “Crepapelle”, di Luciano Folgore!»

La signora trasalì: «Luciano Folgore? Ma... Non ti pare un po’ datato?»

Marisa fissò la signora con uno sguardo che sembrava quasi di commiserazione e rispose, dura: «Signora, noi sceglieremo molti libri datati, perché con autori contemporanei il rischio di trovare qualcuno che ha fatto la nostra stessa scelta è alto, troppo alto, e basterebbe un libro, un solo libro doppio per venire automaticamente bollati come massa. E noi non vogliamo questo, vero, signora?»

La signora si fece piccola piccola e scosse la testa vigorosamente come per dire no, no figuriamoci!  Marisa, soddisfatta della reazione della cliente, riprese in tono più accomodante: «Si fidi, signora. Io le scoverò il meglio del meglio, quelle perle che non sono per tutti, e che, pur se datate, come dice lei, illuminano e valorizzano al massimo chi le porta... E saranno comunque delle perle uniche».

La commessa tacque, fissò la cliente e si accorse che ormai era nelle sue mani. Prese qualche nota sul taccuino prima di continuare: «Passiamo alle... attività della mattina, giusto? Di che si tratta?»

«Ma, non so, solite cose… Ci sono attività sportive, tennis, palestra, pilates... Sai, cara, il conte ha una palestra ben attrezzata, chiama istruttori molto validi, e sono molti quelli che la frequentano, ma anche piscina, o spiaggia, naturalmente. E poi ci sono altre attività di tipo spa: sauna, massaggi, cure estetiche, perché la contessa ci tiene molto alla forma, ormai anche lei ha una certa età, e anche lei recluta personale di primo ordine, di una qualità difficile da trovare».

«E lei, signora? Lei quale di queste attività segue?»

«Beh, io non è che disdegno le attività sportive ma... Una va in Sardegna anche per rilassarsi e staccare un po’, giusto? La spiaggia… bah, a me annoia. Certo se ci andasse lei-sa-chi, ci andrei anch’io, naturalmente, ma se posso evito e preferisco una bella sauna, seguita da massaggio, pedicure, manicure... la spa, insomma, dove tra l’altro si può stare a chiacchierare fra donne senza la pesantezza dei nostri mariti che anche quando fanno sport continuano a parlare di soldi, di affari, di politica, tutte cose che a me non è che interessino molto, anzi».

«Uhm, tutto chiaro... Allora, io ci vedrei bene un romanzo contemporaneo, magari anche due, nel caso voglia o debba dedicarsi a più attività. Per quanto riguarda le attività di spa, io me la immagino con un romanzo non troppo pesante, certo, però già di un certo spessore... Qualcosa come il “Club dei bugiardi”, di Mary Kerr, ma qua un po’ di rischio c’è, ne hanno fatto una ristampa recentemente: io faccio sempre riferimento all’edizione originale, ma con le ristampe non si sa mai. Allora, un’altra scelta potrebbe essere... Beh, anche Janet Skeslien Charles non sarebbe male, con la sua “La biblioteca di Parigi”, però non mi convincono né l’una né l’altra: vede, signora, io per lei vorrei trovare un autore donna, ma deve essere eccezionale e al tempo stesso poco conosciuta».

Marisa rimase per un po’ in silenzio, mordicchiando la sua matita e tenendo gli occhi chiusi, finché aprì gli occhi, come illuminata, e schioccò le dita: «Sì! Questa! Signora, a lei il nome di Jacqueline Harpman dice niente?»

«Beh, no... Ma io, cosa vuoi, cara…», brontolò imbarazzata la cliente «Sai, non è che abbia molto tempo per leggere, io... Guardo la TV, mi informo in internet, leggo qualche rivista, ma per quanto riguarda i libri...»

«Non si preoccupi, non è mica un’accusa. Però, così come lei non conosce questa scrittrice, che è stata pubblicata diversi anni fa e che all’epoca è stata sottovalutata, non la conoscono di sicuro neanche le sue amiche. Jacqueline Harpman, “Io e Dio”, è proprio quello che ci vuole per una sauna, un massaggio o attività similari. Si tratta di un’edizione di poche pagine, comoda e pratica da portare ma al tempo stesso di una eleganza e una raffinatezza rare».

Si fermò a guardare la signora M. che chiese: “E con questa, con questa non c’è il rischio di trovare qualcuno che abbia lo stesso libro?»

«A dire la verità,» rispose Marisa «un po’ di rischio c’è sempre. Io naturalmente cerco di evitare al massimo che si possa verificare una cosa del genere ma una percentuale di rischio non si può mai escludere. Per questo io consiglio le mie clienti, e lei lo sa, di prendere adeguate precauzioni, ad esempio in questo caso portarsi via 2, 3 libri per la stessa occasione di modo che ci sia sempre un ripiego se ci si accorge che qualcuno o qualcuna ha fatto le nostre stesse scelte. Anzi, in realtà, signora,» disse in un tono più basso, quasi da cospiratore «io le consiglierei di arrivare per ultima, di modo da poter sbirciare in anticipo quello che hanno le altre, e tenersi nella borsa un libro di emergenza».

La cliente si mise a ridere e abbassando pure lei la voce, in tono confidenziale, disse: «È quello che farò, cara, grazie!» e strizzò l’occhio a sua volta.

«Ecco, allora per la spa siamo a posto, invece se dovessi andare in spiaggia, mi piacerebbe per lei un qualcosa sempre non impegnativo Anzi leggero, allegro, casual possiamo dire, tale da far risaltare il suo senso dell’ironia. Magari un romanzo in tema, come “Vacanze matte” di Richard Powell, oppure “Alla larga dal mare” di William Brinkley, o anche “Vacanze a tutti i costi” di Pierre Daninos. Anzi, propenderei decisamente per quest’ultimo anche se non è un romanzo, si tratta piuttosto di una serie di brevi articoli umoristici, perché questi libri sono tutti e tre dei gioiellini, ma Daninos è proprio una chicca di una eleganza al tempo stesso classica e modernissima. Naturalmente, intendo l’edizione originale del 1959 che fra l’altro è arricchita dai disegni di un artista poco noto ma di alto livello come Jacques Charmoz, un’edizione, mi lasci dire, che sta assolutamente bene con tutto.  E poi, si tratta di un autore francese, e questo potrebbe risultare gradito al console o alla sua consorte.».

La signora sorrise apertamente: «Vedi, cara, tu pensi sempre a tutto, per quello mi piaci!»

«È il mio lavoro, signora! Anche se con lei spesso è più un piacere che un lavoro.» sviolinò la commessa.

L’incontro andrò avanti in questo modo per quasi due ore, compresa una breve pausa per un tè, e la signora M. diventava sempre più rilassata e meno sostenuta, e a quelli che giravano per la libreria e per caso davano un’occhiata al salottino, le due davano l’impressione di essere più due amiche immerse in piacevole conversazione che cliente e commessa, tanta era la complicità, quasi intimità che esprimevano a chi non poteva capire lo scopo di quel dialogo.

Certo, era sempre Marisa quella che conduceva il gioco, portando la signora M. con delicatezza e fermezza ad approvare certe scelte quasi come fossero delle idee venute a lei e non frutto della conoscenza e dell’esperienza della commessa. In questo modo, arrivarono un po’ alla volta ad individuare i libri migliori per ogni occasione: ad esempio per le uscite in barca Marisa stabilì che si dovesse optare per un romanzo storico e fu scelto “Le segrete del castello”, di Antonio Perria, anche se con un po’ di rammarico della commessa secondo cui l’opera migliore sarebbe stata “Cavalieri di oriente e di occidente”, di Francois Cavanna,  opzione che dovette purtroppo essere scartata perché la presenza del console sconsigliava l’utilizzo di questo volume, considerando il fatto che si trattava di un autore non ben visto, anzi decisamente inviso all’establishment francese. Comunque, tutte le diverse occasioni che si presentavano o si sarebbero potute presentare vennero esaminate a fondo e per ciascuna venne trovata la soluzione o le soluzioni migliori. L’unico problema, o contrasto, se vogliamo dire così, fu la scelta del libro per il pre-cena, quando era prassi che dopo una giornata di svago e leggerezza, le circostanze dovessero lasciare il posto a qualcosa di più impegnato, opere accademiche, scientifiche, o anche di saggistica, ma in ogni caso non di narrativa, e di rilevante spessore culturale.

Qui la signora M. fu irremovibile: nonostante Marisa le avesse proposto, spiegandone a fondo le ragioni e le opportunità, tutto un elenco di libri come “Il mulino di Amleto”, raffinato saggio sul tempo di Giorgio De Santillana e Herther von Dechend, il classico “L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi”, di Philippe Aries, e perfino “La grande madre” di Erich Neumann, un’opera che, per usare le parole della commessa, “… è una sorta di perfezione letteraria, sta bene con tutto e chiunque con questo è sicuro di fare un figurone”, la cliente si impuntò su “L’universo elegante”, di Brian Greene, solamente perché, come aveva letto sulla copertina, trattava della teoria delle stringhe, di cui aveva sentito vagamente parlare in una delle sue sitcom favorite. Alla fine, Marisa cedette, ma non senza sottolineare, con malcelata ripicca: «...Poi però non venga a lamentarsi con me se qualcun altro esibirà lo stesso libro: lei, cara signora, non è l’unica a cui piace Big Bang Theory!»

In ogni modo, a parte questo ultimo screzio, il taccuino si riempì di una lunga lista di volumi e alla fine le due arrivarono alla scelta più impegnativa, la scelta che poteva significare il trionfo o la vergogna in quell’occasione mondana: il libro da portare alla cena in onore del console di Francia.

La conversazione leggera di prima era sparita, ora le due sembravano più serie, più concentrate e la commessa era quella più conscia dell’importanza della cosa, sapeva che era in ballo non solo il successo sociale della signora M. ma anche la propria capacità e la propria reputazione professionale. Marisa si schiarì la voce prima di chiedere: «Mi dica, signora c’è stato qualche altro precedente simile, di cui mi può parlare?»

La signora ci pensò un po’ sopra prima di rispondere: «Beh, qualche anno fa c’è stato un aperitivo a Palazzo Farnese, a Roma, per raccogliere fondi non mi ricordo più per che cosa, forse i bambini in Africa, o le foreste amazzoniche, o la ricerca sulle malattie rare, roba del genere. Nell’invito, era specificato “È gradito un libro francese”, e si sa cosa si intende per ‘gradito’ in questi casi.  Io mi presentai con “Le beaux mensognes de l’histoire”, non mi ricordo neanche più chi fosse l’autore, ma non fu un successo.»

«Signora,» la interruppe la commessa con un velo di rimprovero nel tono: «Non mi pare sia venuta a parlare con me, quella volta.»

«No, Marisa, purtroppo no!» si scusò l’altra quasi chiedendo perdono «Mi trovavo a Roma, non avevo il tempo di tornare qui, è successo tutto in fretta. Sono andata in una libreria consigliatami da una mia amica, la moglie del ministro O., ma non è andata bene, proprio no. Marisa, tu sei unica, e ti assicuro che non capiterà più.» e restò a fissare la commessa con aria mogia, da cane bastonato, come in attesa di ricevere l’assoluzione da un prete.

La commessa, compiaciuta del fatto che l’aveva chiamata per nome e non con il solito ‘cara’, fece un cenno con la mano quasi di indulgenza, come per dire “va bene, non ne parliamo più” e chiese: «Per caso, si ricorda quale libro fu maggiormente apprezzato quella sera?»

«Sì che me lo ricordo, o meglio mi ricordo che l’aveva portato proprio la moglie del ministro, quella che mi aveva consigliato la libreria dove andare e mi sa tanto che lo aveva fatto apposta a mandarmi là! Il titolo no, quello non me lo ricordo, so che parlava della storia dei cornuti nel Medioevo o qualcosa del genere».

«Uhm. Probabilmente era “Au bonheur des males, adultere et cocuage à la Renaissance”, di Maurice Daumas. Opera interessante, certamente, ma non eccezionale, si poteva fare di meglio. Altro da dirmi sui libri portati in quell’occasione?»

«Mah...  C’erano molti classici, Dumas, Hugo, quelli là insomma, e poi diversa roba contemporanea, ma non mi ricordo più cosa, niente di particolare se no me ne ricorderei, credo. Ah, una cosa, ma è proprio una barzelletta, mi scusi, il commendatore G.  e l’addetto culturale francese si presentarono tutti e due con dei libri di fiabe dello stesso autore, Perrault, mi pare, e per tutto il tempo litigarono dicendo che la propria era l’edizione migliore, fu veramente imbarazzante ma mai quanto...»  E qui la signora M. si fermò non riuscendo a trattenere una risatina.

«La prego, continui.»  la incoraggiò Marisa, incuriosita e divertita anche lei.

«Guarda, cara, questa è grossa, te la dico ma, ti prego, tienitela per te perché non è bello far sapere certe cose in giro. Insomma, la moglie del produttore Q., una attricetta che invece di far successo nel cinema ha fatto successo con i cineasti, una piccola borghese che non aveva la più pallida idea di come comportarsi in società, arriva con... mi viene ancora da ridere a dirlo... Con la ricerca del tempo perduto di..., Proust, giusto? Ma non un libro solo, no… Sette! Sette libri, tutti rilegati in pelle! Era impossibile trattenere le risate quando la si vedeva parlare con gli altri ospiti tenendo tutti quei libri in braccio, che sembrava una commessa di libreria! Oh, scusami cara, non intendevo…»

Marisa scosse la testa con un sorriso tirato per indicare che quel paragone non le importava e la signora M. veloce proseguì: «Beh, insomma, era una farsa! Ogni tanto doveva posare libri per stringere una mano o prendere un bicchiere, e poi ne dimenticava sempre in giro qualcuno. Ad un certo punto il marito dovette portarla via, perché lei neanche si accorgeva di quanto si rendeva ridicola e mi dissero che poi, a casa, c’era stata una lite furibonda e che per un bel pezzo lui quando doveva andare a qualche riunione mondana ci andava da solo. Ma che figura, che figura… a Roma ne parlano ancora.»

Si fermò vedendo che Marisa aveva cambiato espressione, il suo sorriso da divertito era diventato brillante e anche i suoi occhi brillavano. Incuriosita le chiese: «Cara, ti è venuto in mente qualcosa?»

La commessa si stava picchiettando la matita sulle labbra ed era come se guardasse lontano, verso un oggetto o un qualcuno che non era nella stanza.

«Sì, signora, mi è venuto in mente qualcosa, proprio. Me l’ha fatto venire in mente la storia dell’ospite con i volumi della Recherche...».

«Non penserai mica di mandarmi alla cena del console con un mucchio di libri, vero?» si preoccupò la cliente.

«No, certamente no. Pensavo piuttosto a qualcosa di particolare, molto particolare. Pensavo a Queneau».

«Queneau?» si stupì l’altra «Ma ad ogni ritrovo, ad ogni festa, c’è sempre qualcuno con un Queneau!  Mi pare roba per giovani, Queneau, banale direi, ce ne è stata una inflazione, perfino io lo so che è fuori moda e che va bene solo tra i giovincelli che incominciano appena ad entrare in società. Mi pare che anche mia figlia, quando va in discoteca, si porti un Queneau!»

«Vero.» disse con aria astuta Marisa. «Ma quello che le propongo io è.… eccezionale. Qualcosa che non credo si sia visto facilmente anche nei ritrovi più esclusivi, qualcosa che di sicuro non è da tutti portare, certo, ma io per lei lo trovo perfetto. Semplicemente, divinamente perfetto.»

«Ma, ma...»  balbettò la signora preoccupata «Cosa c’entra con quella disgraziata con tutti quei volumi pesanti e rilegati?»

«Beh, perché è un’opera grandina, un po’ ingombrante, diciamo. Intendiamoci, niente che lei non possa portare tranquillamente, specialmente con un personale come il suo, che non ha niente di invidiare a quello di una ventenne. Però non è certo una edizione economica, di poche pagine, da tenere con noncuranza in mano o sotto il braccio.»

«Spiegati, Marisa, ti prego!»  implorò la signora tornando soprappensiero al nome di battesimo.

Marisa la guardò per un attimo e poi sparò: «“Cent mille miliards de poemés”, e intendo la prima edizione del 1961.  È appunto un’opera di grandi dimensioni, rilegata, ma sono certa che lei, con il suo stile e la sua classe, non avrà difficoltà a sfoggiare come merita. Lei sa di cosa sto parlando?»

La signora M. annuì fissando Marisa a bocca aperta: «Sì, ne ho sentito parlare, ma pensavo fosse una leggenda.»

«Nessuna leggenda. Naturalmente, non si tratta di un volume che teniamo in libreria, ma sono in grado di procurarglielo nel giro di una settimana, massimo dieci giorni. E il costo, ovviamente, devo dirglielo subito, è un costo da collezione. Non so quantificarlo con precisione ma di sicuro si tratterà di qualche migliaio di euro».

La signora fece un gesto nervoso con la mano, quasi offesa: «I soldi non sono certo un problema, cara, dovresti saperlo, e anche i tempi possono andare bene, ma... Non è che sia troppo?»

Marisa sospirò: «No, per lei non è troppo. Se c’è una donna che possa esibire una tale opera con grazia e naturalezza, questa è lei. Mi creda, non glielo proporrei se non fossi sicura di quello che dico. Ormai ci conosciamo da tempo, lo sa: quante volte l’ho delusa o non sono stata all’altezza?»

«Mai, Marisa. Mai.» rispose convinta la cliente, e gli occhi già le si illuminavano pensando alla splendida figura che avrebbe fatto alla cena del console di Francia.

 

 

Il taxi accostò al marciapiede davanti alla libreria. Marisa, che aveva accompagnato la signora M. ad aspettare la vettura, aprì la porta dell’auto ma l’altra, prima di montare, volle darle le ultime raccomandazioni: «Allora, cara, per i libri che abbiamo trovato, anche le copie da portare via per i casi di emergenza, mandameli direttamente a casa. Invece, per quello-che-tu-sai, preferirei venirlo a prendere di persona. Anzi, pensandoci bene, no. Non è che potresti portarmelo tu?»

«Come preferisce. Domanderò al cavaliere Grifoni, ma non penso ci saranno problemi.», rispose Marisa che aveva ripreso il tono professionale e il ruolo della semplice commessa.

«Brava. A proposito di Grifoni, ho convinto mio marito a venire qui un giorno della prossima settimana. Ecco, cara, desidero che lo segua direttamente Grifoni. Tu sei brava, cara, ma credo che tra maschi si intendano meglio.»

«Avvertirò il cavaliere, signora.»

«Perfetto.  E mi raccomando, devi anche dire a Grifoni di starci dietro bene, perché mio marito da questo punto di vista è un troglodita e, se fosse per lui, girerebbe ancora con i libri di Salgari che gli hanno regalato per la prima comunione.»

«Non mancherò, signora.»

«Bene. Credo sia tutto.» concluse la signora montando nella vettura «Aspetto notizie per… beh, tu sai per che cosa. Arrivederci, cara».

Marisa chinò il capo con deferenza e in un attimo il taxi fu di nuovo nel traffico cittadino. Quando l’auto scomparve dietro la prima curva, rientrò nella libreria: «Tutto bene, cavaliere, anche questa volta al guardaroba estivo della signora M. abbiamo provveduto egregiamente.» disse piano al titolare che aspettava trepidante e che rispose con un largo sorriso di soddisfazione.

giovedì 6 luglio 2023

Il suicida vergognoso

Purtroppo questo racconto è stato cancellato da YouTube perchè il contenuto può nuocere ai minori.  Non me l'aspettavo e condivido solo in parte la decisione, però li capisco.



Il racconto "Il suicida vergognoso" ha ricevuto il Premio Speciale CdA al premio letterario Project One 2023. Buon ascolto

Autore: Remo Badoer

Voce: Maury Incen
Produzione a cura di CdA Team di Caffè delle Arti
Realizzato presso: MultimediaPower Studio - Roma



martedì 11 aprile 2023

Arcobaleni rovesciati (racconti presi di striscio)

 

Gli arcobaleni rovesciati si vedono di rado, si presentano più come curiosità che come fenomeni atmosferici, stravaganze celesti che però, come tutte le anomalie, servono per farci tenere a mente che esiste sempre un modo differente di vedere le cose.

Così sono questi racconti, altalenanti tra realtà e fantasia, tra bizzarria e paradosso, storie che aprono finestre su mondi dove l'assurdo e il surreale si mischiano con la normalità di tutti i giorni - e viceversa. 

Sono racconti leggeri, non pretendono nulla e non risolvono nulla, vogliono solo far sorridere il lettore, magari incuriosirlo e forse, perché no, farlo anche commuovere un po'. Racconti presi di striscio, insomma, ma dove la lettura non è né scontata né banale.

A biliardo, i tiri diretti sono considerati quelli più fattibili, e di solito fanno ottenere risultati migliori, mentre un tiro di striscio invece non lo si fa spesso, perché è facile sbagliarlo e può far perdere. Ma che importanza ha?



Per un'anteprima:
https://www.amazon.it/Arcobaleni-rovesciati-Remo-Badoer/dp/8892383485


sabato 8 aprile 2023

L'ARCOBALENO ROVESCIATO (una fiaba colorata)

 


C'era una volta un bambino che viveva in una grande casa, dove non gli mancava nulla.

La mamma gli preparava cose buone da mangiare ogni giorno, andava a scuola con i suoi amici, giocando e facendosi scherzi a vicenda con tante risate, finita la scuola, tornavano sempre assieme a casa e sempre giocando e scherzando. A tavola, c'era anche il papa che voleva molto bene al bambino, non lo sgridava mai -o quasi, però lo sgridava solo quando se lo meritava e senza mai alzare neanche la voce.

Dopo pranzo, andava a giocare con i suoi amici fino a sera e se qualche volta prima non faceva i compiti..., beh, quella era una delle volte in cui il papà lo sgridava.

A quel bambino, insomma, non mancava niente, anche.se non era contento del tutto.

Il fatto era che, quando si fermavano sudati per riposarsi di tutte le corse e i salti fatti giocando, i suoi amici parlavano di cose che lui non interessavano. Parlavano di macchine, di quanto grande era e quanto correva quel nuovo modello, parlavano di che macchina volevano comprarsi da grandi... Oppure parlavano di calcio, di questo o quel giocatore, di quanto costava (tanto!) e di quanti gol faceva. E siccome poi i suoi amici facevano il tifo per squadre diverse, litigavano -sempre per gioco- e si prendevano in giro quando quella squadra aveva perso oppure si vantavano quando l'altra squadra vinceva, proprio come.se fossero stati loro a giocare in campo.

Ecco, in questi momenti il bambino.se ne stava zitto ad ascoltare, perché voleva bene ai suoi amici, ma quelle cose proprio non gli interessavano.

Eh sì che ci aveva anche provato a farsele piacere, si era fatto comprare le figurine dei calciatori, si guardava e leggeva -per quello che capiva, almeno- le riviste di suo fratello più grande, dove c'erano belle foto di macchine e dove dicevano quanto correvano, che gare avevano vinto, cose così. Ma non c'era niente da fare: quelle cose continuavano a non interessarlo, per lui erano di una noia mortale.

Un giorno, mentre stavano giocando nel parco vicino a casa, scoppiò un brutto temporale con lampi, tuoni e tanta, tanta pioggia. Si ripararono tutti sotto una tettoia facendo a gara a spingersi fuori finché la pioggia cessò e il cielo da nero e blu che era stato tornò chiaro e sereno.

A quel punto, nel cielo comprarve un arcobaleno, il più bell’arcobaleno che si sia mai visto.

Allora, tutti uscirono sotto l'ultima goccia di pioggia e. guardando l’arcobaleno fecero: “Ooohhh...” e restarono fermi a guardarlo meravigliati. Ma durò poco, perché uno disse: “Sapete, ho letto in un libro che alla fine dell'arcobaleno c'è sempre una pentola piena di monete d'oro, una pentola protetta da uno gnomo che non vuole che gliela rubino.”

“E chi se ne importa dello gnomo?” fece un altro “io arrivo là, prendo lo gnomo a calci nel sedere e mi porto via l'oro, così poi mi compro una bella macchina.” “E allora vengo anch'io, prendo anch'io l’oro” si intromise un altro “e così mi compro anch'io la macchina, e anche una casa grande e bella come quelle che fanno vedere in televisione” e un altro ancora: “E io invece mi compro tutta una squadra di calcio, tutta per me, e se i giocatori non vincono, con l’oro me ne compro altri e gli altri li vendo e faccio altri soldi...”

E via, come al solito si era tornati a parlare di cose che al bambino non interessavano. Il bambino era rimasto zitto a guardare l'arcobaleno nel cielo e anche quando questo svanì continuo a vederlo con gli occhi della mente, lo vedeva ad occhi chiusi, e si immaginava che l'arcobaleno fosse un ponte, un ponte da attraversare per andare in luoghi nuovi, mai visti prima, in paese pieno di meraviglie dove la gente era strana, vestita con abiti strani, faceva cose strane che poi tutto era strano, ma bello e affascinante, non faceva paura. Si immaginava di salire su per l'arcobaleno e di lasciare giù, sotto, la città che conosceva bene, con le sue macchine, le sue case, la gente sempre di fretta che leggeva il giornale e parlava -anche quella- di calcio, di macchine e di cosa fare se avessero avuto un mucchio di soldi.

Così, l'arcobaleno divenne suo amico e da quel giorno, quando era da solo nella sua cameretta, gli bastava chiudere gli occhi per vedere il nuovo l'arcobaleno, per salirci sopra e attraversarlo per arrivare in paesi sempre nuovi, pieni di meraviglie sempre nuove, dove succedevano sempre cose nuove. Era il suo divertimento personale, non ne parlava con nessuno e se lo teneva tutto per sé.

Un giorno però, mentre teneva gli occhi chiusi, l’arcobaleno apparve ma… era rovescio! Era tutto rovescio! Come poteva essere?

Il bambino riapri gli occhi, controllò di essere nella sua cameretta e poi li richiuse, ma l'arcobaleno era ancora là, ed era ancora rovescio. Pensò allora di poterlo girare ma mentre ci provava senti una vocina che gli diceva: “No, non toccarlo! Lascialo così, a me piace così.”

Il bambino riaprì gli occhi perché pensava di essersi addormentato, di stare sognando, ma senti ancora la vocina che diceva, in tono allegro e amichevole: “No, non stai sognando. Sei proprio sveglio, nella tua cameretta, e se guardi fuori dalla finestra vedrai che è pomeriggio e c'è ancora il sole.”

Il bambino allora si spaventò davvero, perché pensava di essere diventato matto, e sapeva che ai matti capitano brutte cose. Ma la vocina continuò: “Nooo, non sei neanche matto! Non avere paura, va tutto bene, sai.”

La voce era così allegra, da bambina, e il tono così piacevole che il bambino prese coraggio e domandò: “Ma tu chi sei? Dove sei? Non vedo nessuno qui!”

“Io sono la fata Annina, e non mi puoi vedere perché... beh, perché io sono sì in questo mondo ma al tempo stesso non ci sono. Insomma, è una cosa complicata da spiegare e forse non so neanche io bene come funziona, ma è proprio così e magari più avanti lo capirai anche tu”

“E cosa ci fai qui?”

“Sono qui perché mi piacciono gli arcobaleni e ancor di più mi piacciono quelli che ci camminano sopra per andare da un'altra parte. Quelli come te, insomma.”

“Ma perché vedo l’arcobaleno rovesciato?”

“Perché quello è il mio arcobaleno, è con quello che sono arrivata qui. E adesso per favore chiudi di nuovo gli occhi e torniamo a guardare questo arcobaleno.”

Il bambino obbedì e subito apparve l'arcobaleno della fata, naturalmente sempre rovesciato.

“Ma cosa te ne fai tu di questo arcobaleno rovesciato” chiese allora il bambino che ormai era entrato in confidenza con la fata “non puoi andare da nessuna parte con un arcobaleno rovesciato!”

“Dici? Mmm... Veramente sono venuta qua proprio per capire se tu puoi farci qualcosa. Vediamo, se non puoi usarlo come ponte, a cosa ti può servire un arcobaleno rovesciato?

Il bambino ci pensò un attimo, ma proprio poco poco, e poi rispose, sempre tenendo gli occhi chiusi: “Non è più un ponte. È una barca, una barca che serve ad attraversare il mare.”

“Bene. E per andare dove?”

“Lontano, verso terre lontane dove non ci si può arrivare attraversando un ponte.”

“Mmm. Sei proprio bravo. E dove arrivi?”

“Arrivo in un paese che non conosco, dove c'è gente con la pelle di tanti colori, che vivono in case basse, in città piene di bambini che corrono, di ragazze che danzano, ci sono animali che non ho mai visto prima, gatti con le ali e cani con il muso da pesce, e ci sono odori di spezie che vanno nel naso e fanno quasi male da quanto buoni sono, e poi su tutte le case ci sono bandiere colorate, la gente ha due ombre perché ci sono due soli nel cielo, e ci sono macchine che rotolano, saltano, girano su se stesse e, volano, suonano, cantano...”

“Va bene, va bene basta così” lo interruppe la fata Annina ridendo “e c'è qualcosa di particolare che ti interessa?”

“Sì. C'è una tavola dove stanno mangiando un guerriero con la spada e una piratessa. Stanno mangiando e la piratessa prende in giro il guerriero perché sta seduto bene e mangia educato mentre lei mangia con le mani e butta gli avanzi per terra. Però si vede che il guerriero la ama e lei ama il guerriero. Ad un certo punto si siede con loro un mago, con un mantello rosso fuoco, che dice che c'è bisogno di loro perché sta arrivando dal deserto un esercito di banditi feroci che odiano le persone felici e vogliono bruciare tutta la città. Poi il mago tira fuori da sotto il mantello una specie di bottiglia da cui fa uscire delle bolle di sapone e dentro queste bolle si vede il deserto e l'orda dei banditi che sta arrivando...”

“Bene, basta così” lo interruppe la fata Annina.

“Come, basta così? La storia è appena cominciata!”

“Lo so, e la finirai con calma, quando vorrai. Ma adesso ti devo dire delle cose.”

Il bambino si incuriosì, e rimase zitto, anche se in realtà voleva vedere come il guerriero e la piratessa salvavano la città dai banditi del deserto, magari con l'aiuto del mago oppure di... no, un attimo di silenzio, adesso volevo ascoltare la fata.

La fata si era accorta che il bambino era ancora dentro la storia che si era inventata e attese con pazienza di avere la sua attenzione e quando fu sicura di averla, gli disse:

“Vedi,                     [qui ci andrebbe il nome del bambino, ma io non lo metto, così ogni bambina e ogni bambino può mettere il suo, se vuole, oppure quello di un suo amico o di una sua amica, tiè], adesso sono sicura che tu sei quello che pensavo, uno che se ne va in giro per posti che non esistono, che vede cose che gli altri non vedono, che racconta storie che non ci sono mai state.”

“Insomma, sono un matto!”

“Nooo! Ancora con questa storia del matto! Non sei matto, o forse anche sì, ma non nel senso che intendi tu! Tu sei -o meglio, sarai- uno scrittore.”

“Uno scrittore? Uno di quelli che scrivono libri?”

“Sì, proprio uno di quelli! Perché la tua fantasia non puoi tenertela solo per te, devi portarla anche gli altri, a quei bambini -e anche a quegli adulti- che parlano solo di calcio, di macchine, di soldi.”

“Ma io non so scrivere.”

“Imparerai. L’importante, la cosa importante che devi tenere a mente è che hai un arcobaleno (anzi due, perché adesso hai anche il mio) e potrai andare dove vuoi per poi raccontare agli altri quello che hai visto. Questa è la cosa importante, il resto è facile.”

E fu così che andarono le cose. Il bambino diventò grande e scrisse libri che lessero sia i bambini che i grandi, e anche se, vabbè, aveva dovuto studiare bene la grammatica, ne era valsa la pena perché chi leggeva i suoi libri per un po' non parlava più di calcio, di macchine, di soldi e se ne andava invece in giro per posti nuovi e bellissimi, a vivere nuove storie e nuove avventure, proprio come lui.

E alla fine capì cosa voleva dire essere in questo mondo ma al tempo stesso non esserci, e soprattutto capì -anche perché non l'aveva abbandonato mai- che l'arcobaleno rovesciato non era neanche una barca: era, nel cielo, il sorriso colorato della fata Annina.