venerdì 1 dicembre 2023

Elvira e Diodata


"...
Del gran pianeta sopra in vivo raggio
Stava una donna dolcemente vaga:
Seduta ell’era, e per lungo viaggio
Parea venir dalla celeste plaga:
Era'l suo sguardo accortamente saggio.
Angioletta fors' è? è forse maga?
Sclamai, che certo sì leggiadro viso
 Opra è d' incanto, o nacque in Paradiso.
 ...”


Nella saletta riservata sul retro della pasticceria, le amiche chiacchieravano senza che il vocio del bancone arrivasse a disturbarle. Erano in cinque, e ogni giovedì si davano appuntamento regolarmente in quella saletta accogliente, con tavoli in legno laccato e sedie Thonet, il perlinato alle pareti con appese sopra stampe d'epoca, una credenza anch'essa di legno laccato e sopra questa una vetrinetta dove erano esposte eleganti teiere in argento di stile inglese, un lampadario stile liberty, che forse faceva poca luce ma gli abat-jour a ridosso dei singoli tavoli provvedevano al resto.

Era un loro rito, trovarsi davanti ad un tè, una tisana, un cappuccino o anche una cioccolata, diete permettendo, a raccontarsi quello che era capitato nella settimana, che cosa avevano fatto, chi avevano visto, che cosa avevano sentito, anche, ma erano tutte storie abbastanza normali, erano semplicemente delle amiche, donne normali che conducevano vite normali: la casa, i figli, i mariti (erano tutte sposate, a parte Antonella, che stava divorziando), il lavoro, la televisione, la salute... cose di scarsa importanza, potrebbe magari pensare qualcuno senza considerare che la vita è fatta di tante piccole, banali cose che si attaccano l'una con l'altra e che è questo concatenarsi di cose piccole quello che crea e giustifica una intera esistenza.

Quel pomeriggio gli argomenti erano stati i mariti, soprattutto quello di Antonella. Poi erano passate a parlare del lavoro, dell'atteggiamento di uno o l'altro dei loro colleghi, e dopo ancora erano arrivate ai gatti, ai vicini che non amano i gatti, e a quant'è difficile trovare dei vicini raccomandabili... Parlavano una sopra l'altra, alzando più o meno la voce, con tono allegro oppure serio, magari anche arrabbiato ma sempre con una partecipazione viva: ognuna poteva e voleva dire la sua riguardo qualsiasi argomento.

Solo Elvira, al solito, rimaneva taciturna. Elvira, pensavano le amiche, era una che ascoltava, e non amava parlare né di sé né di altre cose. Elvira alle altre piaceva. Era una persona che non giudicava, ascoltava ma rispettava qualsiasi cosa le altre dicessero, soprattutto non faceva nessun tipo di pettegolezzo, e non metteva il naso nei fatti delle altre. Ogni tanto, quando una delle amiche la guardava o le domandava qualcosa, in genere scrollava le spalle e sorrideva, dicendo banalità di comodo, tipo “D'altronde... Le cose stanno così”, dando sempre ragione alle altre, oppure semplicemente faceva di sì con la testa, e invitava le altre a continuare i loro discorsi. Non che fosse reticente, questo no, se qualcuna le chiedeva di come andava il figlio a scuola, se al lavoro qualcuno dei colleghi le avesse mai fatto delle avances, se suo marito era uno di quelli che amavano passare le serate al bar con gli amici oppure stava a casa davanti alla televisione, lei rispondeva senza problemi, solo che raccontava le cose come se non la riguardassero, senza mostrare particolare attenzione, e sorrideva. Elvira sorrideva sempre.

Il fatto era che Elvira Colasanti coniugata Quadrelli, di anni 39, con un figlio di 15 anni e una bambina di 7, un lavoro come assistente amministrativa in Provincia, semplicemente non esisteva. Era da tanto tempo ormai che non esisteva. Da quando, stanca dei problemi, delle troppe responsabilità, di una vita che non le dava più alcuna soddisfazione, aveva deciso che lei non era più Elvira e aveva scelto di essere Diodata, la poetessa su cui aveva fatto la tesi di laurea, una poetessa che all'inizio l'aveva fatta sorridere per il suo stile ma che un po' alla volta aveva imparato ad apprezzare, una poetessa la cui lettura aveva continuato a tenere nascosta a tutti e che le era stata di conforto nei momenti anche più dolorosi e più pesanti che la vita le aveva riservato, la poetessa che alla fine aveva preso il suo posto. Perché Diodata non era solo un rifugio, una consolazione: Diodata era la sua stessa vita. Lei era Diodata, e basta.

Elvira non era morta, no, continuava a fare le cose che faceva prima, a badare alla casa e alla famiglia, a fare il suo lavoro in ufficio, a vedere gente e mandare avanti attività varie, ogni cosa come prima, sennonché tutto quello che faceva quella Elvira non la riguardava più, erano cose che venivano fatte in automatico, come respirare, cose che se uno non ci bada apposta non sa nemmeno di fare. Così, mentre Elvira si occupava di tutte le incombenze della vita, con le fatiche, i dolori e le miserie grandi e piccole che la vita comporta, Diodata se ne stava tranquilla e felice nel suo angolo, e le sue parole erano la vera, l'unica realtà che ci fosse:

"...
Il primo fior che rosseggiar qui miri
E' fresca rosa in sul mattin raccolta;
Dolce dolce nel sen par che le spiri
L' auretta alidorata in terra sciolta,
E nelle chiome in tortuosi giri
Ebe vezzosa l'ha sovente accolta,
..”


Sì, questo era Diodata. Era il mondo, l'universo, l'alfa e l'omega, un uroboro che si nutriva delle sue stesse parole e che non aveva bisogno di altro.

E anche adesso, mentre il medico di guardia le stava applicando dei punti, per il poliziotto che le chiedeva se era la prima volta che il marito la picchiava, l'unica risposta era un sorriso appena accennato dietro il labbro tumefatto, uno sguardo perduto chissà dove oltre gli occhi pesti cerchiati di nero:

“...
Que' grati fior, che la mia man coltiva
Solo ragion imparzial destina,
E del vizio per lunga età cattiva
Alma impura non soffro a me vicina.
..."


Perché quello che era successo non la riguardava, a Diodata non era capitato nulla, nulla sarebbe mai capitato a Diodata.



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Note
La contessa Rosa Ignazia Diodata Saluzzo Roero (1774-1840) è stata una letterata, scrittrice e poetessa italiana.  Testi tratti da: Versi di Diodata Saluzzo, Tomo I

Questo racconto si è classificato primo al Premio per le Arti Quia "Marta Redolfi" 2023 e pubblicato nell'antologia "Letterature per il nuovo millennio - Antologia delle esperienze italiane 2023", Quia ed., oltre che sulla rivista "Quia Magazine" di settembre 2023

domenica 22 ottobre 2023

La leggenda della torre e delle margherite (racconto)

 

La Torre e la Margherite

La storia di Lucinda e Lovello è la storia tragica di un amore contrastato, e potrebbe sembrare simile a molte altre vicende, ma ugualmente vale la pena di essere raccontata per una particolarità che la rende veramente unica.

Era Lucinda la giovane e bella moglie di Giovanardo Acquamorta, un rozzo signorotto molto più vecchio della sposa che viveva in un castello poco lontano da Jesi, mentre Lovello era un soldato di ventura che arrivava dal nord e che, stanco di guerre e di armi, aveva deciso di tornare alla propria casa, sul mare, e di fermarsi per mettere su famiglia.

Nel suo viaggio, il reduce arrivò al castello e chiese di poter dormire nella corte e di prendere un po’ d’acqua dal pozzo prima di continuare il suo cammino. Proprio vicino al pozzo, però, incontrò Lucilla e fra i due fu amore a prima vista. Decisero di fuggire assieme quella stessa notte e di raggiungere Senigallia per poi imbarcarsi verso lidi remoti e così fecero, e quando la loro fuga venne scoperta e Giovanardo, colmo d’ira, mandò i suoi uomini a cercarli, loro erano già lontani, prossimi alla meta, e certamente avrebbero fatto in tempo a sfuggire agli inseguitori.

Accadde però che, attraversando le colline attorno a Montignano, da dove già si vedeva il mare vicino, si fermarono all’ombra di una vecchia torre di guardia diroccata per riprendere fiato. Era questo un luogo meraviglioso: attorno alla torre era tutto un incanto di prati con fiori di mille e mille colori e mille profumi, e attorno a loro si sentiva solo la melodia di uccelli che svolazzavano tra viti e alberi carichi di frutti. Caddero allora vittime della malìa del posto e, dimentichi di essere braccati, si fermarono per fare all’amore, e, presi dalla passione, persero la cognizione del tempo.

Questo ritardo fu loro fatale: vennero sorpresi dagli uomini del Giovanardo e uccisi mentre erano ancora abbracciati l’uno all’altra. Il capo degli sgherri, dopo essersi assicurato della loro morte, li abbandonò là, come gli aveva comandato il suo padrone, senza dar loro sepoltura, perché venissero sbranati dai lupi attirati dal loro sangue.

La leggenda vuole però che nella torre abbandonata vivesse un vecchia maga e che questa fece sì che da quello stesso sangue sparso sul prato sbocciassero subito migliaia e migliaia di margherite che ricoprirono completamente i corpi dei due infelici amanti preservandoli così dalla fame degli animali.

Quella torre esiste ancora, e sono molte le coppie di giovani che vanno a giurarsi eterno amore su quello che fu l’incantevole ma tragico scenario della storia d’amore di Lucinda e Lovello. Ma c’è un altro motivo che spinge gli innamorati verso questa valle, e qui la leggenda non c’entra, si tratta piuttosto di una curiosità -o di un mistero, se si preferisce- di carattere scientifico, oggetto di verifiche e studi da botanici di tutto il mondo che però non hanno mai saputo fornire spiegazioni valide a riguardo: tutte le margherite che sbocciano attorno alla torre hanno i petali dispari.

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PS
a scanso di equivoci... questa leggenda è inventata, e non credo esistano specie di margherite che hanno solo petali dispari, anche se sarebbe bello. 😉

lunedì 28 agosto 2023

Il segreto del Golestan (racconto)

Quando si sveglia, i suoi occhi si mettono a fissare il buio. È tutto nero attorno a lui, solo una sottile linea gialla di luce passa da sotto una porta, ma lui non la può vedere dal letto dove sta sdraiato. Lui vede solo buio. Come al solito, ma lui non sa che è come al solito, la sua prima sensazione è di smarrimento, è disorientato, non solo non capisce dove è, ma lo stesso concetto di «dove» gli è estraneo. E quindi dopo il disorientamento arriva la paura, un sentimento forte, pressante, totalizzante che come una lenta scossa si propaga per tutto il suo corpo, dalla testa al petto, alle braccia, allo stomaco e giù giù fino ai piedi, e da lì di nuovo verso la testa, come la risacca di un’onda, fino a coprirlo tutto sotto una coperta gelida che lo schiaccia e lo fa respirare a fatica.

Senza sapere perché, in un gesto tanto disperato quanto inconscio, allunga la mano destra sotto il cuscino e quando le sue dita sentono il libro, lo stringono forte e la mano poi porta il libro sopra il petto, e con il libro la paura se ne va.

Adesso è tranquillo, e anche se non sa dove è, chi è e vede solo buio, il contatto con il libro lo rassicura, e rimane così per un tempo indefinibile, ore, forse minuti, fino a quando qualcuno bussa alla porta, senza attendere nessuna risposta entra nella stanza e va alla finestra a tirare su le tapparelle prima di girarsi verso l’uomo disteso sul letto e di dirgli sorridendo, parlando piano, come si parla ad un bambino:   «Buongiorno, Martino. Siamo pronti per andare a lavarci?»

L’uomo che per un attimo aveva chiuso gli occhi feriti dalla luce del giorno, li riapre e gira la testa per guardare la donna vestita di bianco che gli sorride. Sorride anche lui, senza la coscienza di stare sorridendo, e continua a tenersi stretto il libro sul petto. E sempre senza alcuna coscienza, lascia che la sconosciuta lo aiutiad alzarsi e dopo essersi sistemato il libro in un tascone del grembiule verde chiaro che indossa, si fa guidare, tenuto a braccetto e camminando a passi lenti, fuori della stanza, nel corridoio, verso un locale dove entrando per prima cosa vede se stesso in uno specchio. L’immagine di un vecchio, magro, con le occhiaie profonde e una ragnatela di rughe sul volto. Ma anche quello per lui è uno sconosciuto. Lui è uno di quelli che non si riconoscono allo specchio.



L’aria nel giardino è tiepida, soffia una brezza leggera che non disturba.

«E quello lì, quello che se ne sta seduto da solo sulla panchina in fondo, sotto il muro, quello chi è?2

«Ah, quello, quello è il Ramboldi. Martino Ramboldi.» risponde la dottoressa che sta facendo da guida al nuovo inserviente assunto nella clinica «Sta da noi ormai da diversi anni, 3, 4, forse anche di più. Quando era fuori, era un bravo professionista, dicono, non mi ricordo se fosse un ingegnere, un architetto, qualcosa del genere. Poi per l’età ha smesso di lavorare, gli è morta la moglie e lui ha avuto un crollo. Ecco, la cosa particolare, forse, è che nel suo caso l’evoluzione della demenza è stata più rapida, come tempi, di quello che ci si può aspettare in casi anche conclamati di Alzheimer come il suo. Per il resto, una storia come tante, ma tieni conto, te ne accorgerai presto, che qui le storie dei nostri ospiti sono tutte uguali».

«Ma perché se ne sta da solo e non gioca come gli altri?»

«Oh, beh, lui ci gioca, si, con gli altri, solo che non sempre ne ha voglia, o si stanca, non sappiamo, e allora va a sedersi là, quello è il suo posto favorito, e poi, quando ne ha voglia, torna a giocare con gli altri. Ma può stare là anche per un bel pezzo, alle volte tiene anche gli occhi chiusi, si potrebbe dire che dorme, ma non è così, non ha nessuna crisi o sintomo di letargia».

«Ma è uno di quelli tranquilli oppure può dare dei problemi?»

«Direi uno di quelli tranquilli, proprio. Ha poche crisi, abitualmente a lunga distanza l’una dall’altra, ma niente di che, non è uno di quelli che aggrediscono le persone o rompono le cose. Si calma da solo. Per quanto riguarda Martino, però, c’è una cosa che ti devo raccomandare. Martino porta sempre con sé, dovunque vada, nel suo grembiule oppure sotto il cuscino la notte quando dorme, un piccolo libro che si è portato da casa e che non lascia mai, ma proprio mai. Ecco, non sognarti di prenderglielo, neanche per un attimo, neanche di toccarlo: Martino ha per quell’oggetto un attaccamento ossessivo, e bisogna lasciarlo fare. La nostra psicologa dice che è per lui una forma di attaccamento alla realtà, una specie di ancora emotiva che rappresenta la sua stessa vita, o qualcosa del genere, se vuoi parla direttamente con la psicologa che ti spiega bene la cosa, anche se non so quanto ne valga la pena. La cosa importante è che quel libro è di Martino e basta, ed è meglio che se lo porti sempre dietro e che lo tocchi solo lui. In caso contrario sì, ci possono essere dei problemi, perché abbiamo visto che allora può diventare aggressivo e violento, veramente violento».

«Capito. Ma che libro è?»

«Boh.» la dottoressa scrolla le spalle con indifferenza «Non me ne ricordo... mi pare fosse un libro di poesie, poesie arabe credo, ma non so... è la sola cosa che ha voluto portarsi qua, quando è arrivato i figli ci hanno detto che aveva fatto il diavolo a quattro al momento di lasciare casa e che si era calmato solo dopo aver preso quel libro dalla sua stanza. La sua demenza era già in stadio avanzato, certo non sapeva più né leggere né scrivere, ma quell’oggetto era importante per lui, così i figli glielo hanno fatto tenere e poi lui s’è lasciato portare qua tranquillamente. E la stessa cosa funziona anche qui in clinica. Perciò, anche se sei curioso, non toccargli quel libro, mai. Se sei curioso e vuoi saperne di più, chiedi alla psicologa che ti dirà di sicuro titolo, autore e tutto quello che vuoi sapere su quel libro».



Martino apre gli occhi e rialza la testa. Come se non fossero parte del suo mondo, guarda indifferente tutti quegli uomini e donne che si tengono per mano e fanno il girotondo guidati da altri uomini e altre donne vestite di bianco. Con precauzione, anche se non sa né cosa sia ‘precauzione’ nè perché si comporta così, si gira sulla panchina in modo da dare la schiena agli altri e lentamente tira fuori dal tascone del grembiule il suo libro.

Lo guarda come se non l’avesse mai visto prima, ed in effetti per lui è proprio così. È un libro piccolo ma corposo, la copertina di colore grigio, con sopra dei segni rossi su cui qualcun altro avrebbe potuto leggere ‘Antologia del Golestan’. Senza curarsi troppo di quelle che per lui sono forme senza significato, sfoglia le pagine lentamente, una dopo l’altra, finché non arriva a trovare, stretto nel mezzo del volume, un minuscolo fiore appassito, di colore azzurro chiaro. Lo guarda e lo ammira. Quello sì che lo conosce, quello sì che sa cos’è. Certo, non lo sa la sua mente, sono piuttosto il suo cuore, il suo animo, forse il suo stesso spirito a riconoscerlo.

Era successo tanti anni prima, durante una di quelle lunghe passeggiate che lo portavano per quelle stesse strade che aveva già percorso più e più volte, tenendo per mano la donna amata, e ogni volta come se fosse stata la prima, perché lei col suo sorriso e le sue allegre risate illuminava quelle vie, quelle piazze, e sempre lui vedeva quella bellezza come se non l’avesse mai vista prima, come se fosse lei ogni volta a fare rinascere la bellezza stessa.

Poi lei se ne era andata. Lui non aveva avuto la forza, la decisione di andarsene assieme a lei, anche se ci pensava ogni volta che si affacciava alla finestra della sua camera e guardava in basso oppure quando attraversando un ponte si fermava a osservare l’acqua scura che scorreva sotto di lui.

Quel pomeriggio era arrivato nel Giardino delle Rose, un luogo amico pieno di ricordi di lei. Camminando fra i cespugli colorati e profumati, riconosceva quasi le orme di loro due abbracciati, e come gli capitava in questi momenti, i ricordi salivano e gli facevano il regalo di un lieve sorriso. Fu allora che passando lo sguardo sull’erba che costeggiava i sentieri del Roseto, si accorse di un piccolo, quasi minuscolo, fiore di colore celeste che stava quasi per calpestare. Non sapeva che fiore fosse, forse un myosotis, forse qualcos’altro, lui non conosceva i nomi dei fiori, a lui i fiori piacevano e li apprezzava, ma non aveva mai imparato a riconoscerli. Era lei che gli diceva i nomi e gli spiegava questo è quello, e lui faceva di sì con la testa e dopo qualche minuto aveva già dimenticato tutto.

Era rimasto colpito perché in quel fiore aveva riconosciuto lo stesso colore degli occhi di lei. Quel colore chiaro, come il cielo all’orizzonte, in cui si era perso un numero infinito di volte. Martino era un uomo che non credeva alle coincidenze e così, dopo essersi accertato che non ci fosse nessuno a guardarlo, si era chinato e senza esitazione aveva raccolto il fiore facendo piano per non rovinarlo e dopo se lo era messo in tasca.

Più tardi, nello studio a casa sua, l’aveva tirato fuori e l’aveva posato sulla scrivania ed era rimasto per un bel po’ di tempo a rimirarlo e non riusciva a staccarci gli occhi di dosso fin quando, ad un certo punto, come colto a una improvvisa ispirazione, si alzò e si diresse verso uno degli scaffali della libreria. Qui, come ricordava bene, tra ‘Il Profeta’ di Gibran e una raccolta di haiku giapponesi, c’era l’ ‘Antologia del Golestan’, di Saadi. Edizione economica, tascabile, stampata in caratteri piccoli, un libercolo di scarsa importanza se paragonato a tanti altri volumi che teneva nella sua libreria, ma aveva pensato che quello fosse il libro giusto, dal momento che il termine Golestan, in persiano, significa appunto ‘Il Roseto’. Ne aveva scorso rapidamente le pagine, senza badare al contenuto, fino a fermarsi, senza un motivo preciso, in un punto dove, dopo un ultimo sguardo, aveva sistemato il fiorellino con estrema cautela e poi aveva rinchiuso il libro, che non aveva però rimesso al suo posto, ma era andato a posare sul suo comodino in camera da letto.

Da quel giorno in poi Martino, ogni sera, prima di addormentarsi (o, almeno, prima di provare ad addormentarsi), apriva il libro e passava un po’ di tempo a contemplare il fiore. Pian piano lo vide appassire, rinsecchirsi, proprio come stava appassendo e rinsecchendo lui, ma sempre manteneva il suo colore che, al calare della notte, era sempre la cosa più bella nelle giornate tristi, monotone e solitarie che conduceva. Perché è vero che un fiore rinchiuso non ha più alcun profumo, è vero che volare non è parlare del cielo, ma è anche vero che quando la luce se n’è andata, quando non ci si attende più nulla dalla vita, nemmeno la morte, allora ci accontentiamo anche di quei timidi, pallidi riflessi che la vita si degna di continuare a offrirci e così, senza nessuna speranza e senza nessun vero domani, andiamo avanti attraverso il nostro dolore.

Alla fine comunque il dolore se ne era andato, era stato sostituito dall’oblio che, se fosse stato in grado di farlo, Martino avrebbe riconosciuto più come un dono che come una condanna.


E adesso Martino se ne sta nel giardino della clinica dove l’hanno portato, se ne sta seduto in disparte, nel suo posto sulla panchina sotto il muro, a guardare un piccolo fiore secco e a passarci delicatemente sopra, per sfiorarlo appena appena, le sue lunghe e scarne dita di vecchio. E senza coscienza, senza sapere perché, nel vuoto della demenza dove nulla ha più importanza, dove nulla realmente esiste, dai suoi occhi sgorgano piccole, umide, salate gocce di una antica felicità che non intende essere dimenticata.


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Racconto primo classificato al Concorso nazionale per racconti brevi dedicato alla scrittrice Michela Turra "Amore e dintorni" 2022